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Stampa diocesana novarese - La recensione di Fornara
 

La pace si regge su fiducia, giustizia e collaborazione
Giovedì 22 luglio, a San Miniato al Tedesco (Pi), è stata "celebrata" la 58a Festa del teatro, a cura della Fondazione istituto del dramma popolare, signorilmente presieduto, da alcuni anni, dal prof. Gianfranco Rossi.
Il vostro cronista, che a San Miniato si sente quasi di casa, avendo partecipato a tale Festa per 24 volte, vi è ritornato per il 25° anno, per assistere al dramma Il dilemma del prigioniero, opera di David Edgar, impeccabile gentlemen inglese.

IL DILEMMA
Si tratta di un'opera recentissima, tanto che la prima è stata data in Inghilterra nel luglio del 2001, tutta incentrata sul grande problema del rapporto fra i popoli. Il titolo parte da questo, per alcuni "famosissimo", per me assolutamente oscuro fino alla sera di giovedì 22, "dilemma del prigioniero".
Cercherò di spiegarlo. 1989, in un'aula della Università della California, un gruppo di giovani, guidato da alcuni docenti, simula un negoziato di pace fra due Stati. Ad un certo punto, come una delle possibili soluzioni, si propone questo "dilemma": due uomini vengono arrestati per rapina a mano armata. Li tengono in celle separate. Per farli "parlare", ad ognuno dei due vien detto che l'altro lo ha tradito. Anche se la cosa non fosse vera, potrebbero verificarsi due possibilità: a) i due si tradiscono reciprocamente, ed ottengono uno sconto di pena; oppure b) tacciono e tornano in libertà.
A questo punto, ecco il sottilissimo "dilemma": l'altro sarà abbastanza leale o abbastanza intelligente da capire il trucco, e, diciamo noi, da starci, ottenendo così almeno uno sconto di pena, o, meglio ancora, il ritorno alla libertà?
Questo assioma, che poi è semplicemente una serie di ipotesi, valido teoricamente in un "gioco di guerra", varrà poi se applicato alla diplomazia internazionale? Cioè, mettendo sullo stesso piano pace e giustizia (i due rapinatori), si otterrà la cessazione delle ostilità? Perché, "dovendo decidere tra pace e giustizia, forse per alcuni la pace può attendere".

A TAVOLINO
Ed è quanto avviene nel corso del dramma. Infatti, la guerra fra la Caucasia, una ex repubblica sovietica, e la Drozdania, un'enclave a maggioranza islamica, che reclama a sua volta l'indipendenza, lungi dal trovare soluzione, confidando che i due avversari (i soliti due rapinatori) in fin dei conti preferiranno "tacere", cioè accettare la pace piuttosto che la guerra, diventerà sempre più complicata, sanguinaria e feroce.
Perché? dal momento che a tavolino tutto sembra sia stato chiarito. Ecco il punto: a tavolino.
A tavolino, certo, tutto è stato messo in chiaro, ma, al momento della firma finale, si scopre che basta una parolina, nel caso specifico "rinunciare" alla violenza, per far saltare ogni accordo pensato, discusso (diciamo noi, addirittura urlato) e sul punto di essere sottoscritto.
Allora ci sembra di dover condividere pienamente ciò che, nel "gioco di guerra" californiano, dice Floss: "Non è solo questione di scegliere tra pace e giustizia, quando si trovano in conflitto. Il problema è che quelle che voi liquidate come semplici posizioni, sono in realtà le speranze ed i sogni della gente. E quelle speranze e quei sogni sono un interesse non meno cruciale della forma di governo di un paese. Non credo sia giusto chiedere alle persone di rinunciare alla propria lingua o al proprio modo di vedere il futuro, in nome di quelli che voi chiamate i loro interessi immediati, perché così gli si chiede di rinunciare alla propria identità".
Quanta ragione ha, da sempre, il personalismo cristiano, di cui Emannuel Mounier fu, negli anni '30 del secolo scorso, intrepido assertore, alla luce, ovviamente, delle encicliche papali, che si basano sulla concezione filosofico-teologica tomistica, che, a sua volta, trae origine dai Vangeli di Gesù Cristo!

LA REALPOLITIK
Invece, e qui il testo di Edgar è impietoso, che cosa vediamo alla fine del dramma, propostoci a San Miniato?
Le due nazioni in conflitto si incontrano di nuovo, questa volta su di una portaerei statunitense. Ed ancora una volta i due "rapinatori" non trovano un punto d'incontro, perché le lingue sono divenute incomprensibili, come all'origine biblica della umanità, là dove si volle edificare una torre a Babel (Gn 10,4). Interviene allora il potere. Dice Gina: "Quando i potenti tendono una mano vuota ai deboli, l'ultima cosa che questi dovrebbero fare è stringerla". Infatti, apparentemente in nome di mille virtù, in realtà per i propri interessi materiali, sia economici che virtuali, il potente (la portaerei) decide di tagliar corto a tutto, per cui l'auspicata creazione di una Caucasia democratica, pacifica e multietnica, comprendente quindi anche l'islamica Drozdania, viene di fatto annullata, e sostituita con la divisione della Caucasia e con la successiva (o concomitante, se non preventiva) pulizia etnica. Poveri "rapinatori"!

I TRE PILASTRI
Bene ha fatto mons. Carlo Gattini a ricordare, nella sua introduzione al testo sanminiatese de "Il dilemma del prigioniero", quanto l'attuale pontefice Giovanni Paolo II ha ripetutamente detto e scritto, che cioè la pace fra i popoli (ma anche fra gli individui), passa attraverso la giustizia e la collaborazione (che il Papa chiama "civiltà dell'amore"). Il resto è ipocrisia, magari con un fine buono (come i due rapinatori, che sperano di uscirne indenni o comunque castigati di meno).
Ignorare l'identità dei popoli e delle loro culture, e quindi anche della loro storia, della loro religione, della loro vita, significa, già in partenza, creare le basi, non per una pace duratura e sincera, ma per un qualcosa, che, forse più presto di quanto si possa pensare, potrebbe tramutarsi in un conflitto, le cui dimensioni ci sfuggono.
Ecco, il personalismo cristiano di Mounier diventa così il regionalismo di don Sturzo, in cui i due rapinatori, non giocano a rimpiattino fra di loro, ma ognuno porta alla vita comunitaria quel poco (o tanto) di bene, di cui sa di poter disporre. Collaborazione basata sulla fiducia; fiducia basata sulla giustizia; giustizia basata sulla pace. Se i popoli ascoltassero qualche volta di più il messaggio cristiano dei "tre pilastri" (collaborazione, fiducia, giustizia), quanta pace di più ci sarebbe in questo povero mondo!

LA SERATA SANMINIATESE
Questo "Il dilemma del prigioniero", che abbiamo visto la sera di giovedì 22 luglio a San Miniato al Tedesco, è stato presentato, per la regia di Maurizio Panici, da una compagnia di attori, quasi tutti giovani e tutti molto bravi. In particolare, ha conquistato di fatto la scena Maria Paiato, che, nei panni della finlandese Gina Ollson, ci ha dato la splendida immagine di una donna di oggi, sinceramente amante ed instancabile ricercatrice della pace, anche se poi, anch'essa, si ritrova a dover fare, da una parte, i conti con la real-politik, che guarda unicamente agli interessi di fatto, e, dall'altra, con la irriducibilità di chi si aggrappa ad una parola, per ottenere comunque lo stesso risultato: mandare all'aria ogni tentativo vero di pacificazione.
Dare questo lavoro non è stato certamente facile, né per il regista, né per gli attori, sia per l'impervietà del tema, sia per la difficile drammatizzazione degli eventi, sia per l'ampiezza inusitata del testo (lo spettacolo, infatti, ha ampiamente sforato la mezzanotte, cosa non consueta per San Miniato).
E qui affiorano nello scrivente alcuni dubbi. Che sintetizzerei così:
- non è stata forse un po' esagerata la concitazione degli attori, quasi sempre a muso duro, l'uno contro l'altro armati?
- non si è forse un po' abusato dell'ascolto, dato che non ci sono stati momenti di relax, come pochi sono stati gli angoli di umanità spicciola, quotidiana?
- non si è forse esagerato nell'amplificazione dei suoni, come anche nella scenografia, collocata addirittura su tre lati (così la facciata degli splendidi edifici della piazza del Duomo, come la luminosa visione della valle dell'Arno, sono state sacrificate, in favore di enormi container accatastati l'uno sull'altro)?
Infine, a nostro avviso decisamente da rivedere quei fondali digitali, specie i tre schermi posti alla sinistra del palcoscenico, che hanno trasmesso poche immagini e piuttosto di repertorio.

UN PERICOLO IN AGGUATO
Il modo, dunque, con cui il messaggio del dramma di David Edgar è stato offerto fa pensare che, per il "teatro dell'anima", per il "teatro dello spirito", per il "teatro del cielo", sta in agguato un pericolo: lo sperimentalismo.
Sperimentalismo sì, ma con prudenza, come si è fatto nei 57 anni precedenti; chi non ricorda le scenografie dirompenti per Giobbe di Zanussi (1985); o quelle nebbiose per Ordet di Scaccia (1992); o quelle festose per Il re pescatore ancora di Zanussi (1996); o quelle elettroniche per il Las Casas di Mussapi dell'anno scorso?
Ecco: lo sperimentalismo non va trascurato, ma usato manzonianamente, cioè "con jujcio".

Bartolo Fornara, Stmpa diocesana novarese, 31  luglio 2004




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