La recensione
Quella fame di miracoli
Lontana è l'estate del 1947, un'estate in cui il teatro all'aperto andava in cerca di se stesso per piazze e giardini, perché ridestatosi di recente dal torpore letargico impostogli dalla guerra. Lontana è quell'estate in cui a San Miniato — dove la guerra, appunto, era ancora una fresca e feroce memoria, con metà delle case sventrate e con la gloriosa Rocca distrutta dalle mine delle truppe naziste — prese inaspettatamente vita, su un palcoscenico eretto in piazza del Duomo, la storia dell'attore Genesio che fu toccato dalla Grazia mentre parodiava, recitando, l'universale dramma del Cristo.
Anche oggi, a distanza di trentaquattro anni da quell'agosto del 1947, su un palcoscenico eretto nella stessa piazza del Duomo (ma certo l'apparato attuale è più ricco, più tecnicamente funzionale) ci sono attori che impersonano, proprio come il loro collega che impersonò Genesio, un gruppo di attori: la finzione — del teatro nel teatro se vogliamo usare una formula un po' stanca — si ripete, così, anche se stavolta il punto di partenza dello spettacolo è in realtà un punto di approdo.
Parlo, è chiaro, della novità di Diego Fabbri, Al Dio ignoto, prescelta dall'Istituto del dramma popolare per la trentaquattresima «festa del teatro» e realizzata dalla «Compagnia del Capranica» con il coordinamento di Orazio Costa Giovangigli e Pino Manzari (la parola «regia» l'ha ormai rifiutata polemicamente da diversi anni) in un quadro ambientale, concepito da Titus D. Vossberg, di nuda severità.
Che cosa rappresenti la scena è facile capire: se da un lato ha tutti i caratteri del palcoscenico deserto nelle ore di prova, dall'altro evoca l'Atene nella cui Agorà Paolo parlò con filosofi storici ed epicurei fino a che non fu invitato nell'areopago a spiegare meglio di quale inusitata divinità egli recasse la parola. E Paolo andò e spiegò: e disse che tra gli altari esposti alla venerazione degli ateniesi uno ce n'era dedicato «al Dio ignoto» e che quel Dio egli veniva ad annunciare come il creatore del ciclo e della terra, come colui che avrebbe giudicato il mondo «per mezzo di un uomo da lui designato, dandone sicura prova a tutti con il resuscitarlo da morte». E come gli ateniesi sentirono parlare di resurrezione lasciarono Paolo, taluni sghignazzando, talaltri rimandando ad altra occasione di approfondire il discorso.
Ora, ecco, fra gli attori radunati nel palcoscenico immaginato da Fabbri arriva un fastidioso e superficiale intervistatore a smuovere — senza neppure rendersi conto delle conseguenze — le intime e segrete ragioni che hanno indotto ciascuno dei presenti a farsi attore.
In scena — comunque — il punto focale del dramma (che non ha, in pratica, un succedersi di eventi l'un l'altro concatenati: si risolve invece piuttosto sulla battuta dichiarativa, sull'esposizione dialettica delle singole posizioni) è quello della ricerca e del reperimento del Cristo attraverso la verità delle parole prestate agli attori da uomini che si chiamarono Shakespeare o Eliot, Dostoevskij o Blok, per fare nomi, come vedete, disparatissimi e di disparate età e di disparato pensiero. (Non a caso, nei Dodici di Bìok fu il Cristo a occupare il posto di punta, a dispetto quasi dell'autore: che non riuscì a liberarsi da quella immagine e dovette affidare al Cristo il rosso vessillo della rivoluzione).
Ma a questo ponto ecco un viaggiatore venuto da lontano, un tale Paolo, pronunciare la frase che mette in crisi le coscienze: «Se Gesù Cristo non fosse risorto, la nostra fede sarebbe vana». Battuta chiave cui si accompagna l'altra non meno importante anche se può passare inosservata: «L'uomo non cerca tanto Dio quanto il miracolo».
Sono i due terminali entro cui si colloca il tormento degli attori.
Attraverso gli attori e la loro finzione, Fabbri vuole insomma proporre il dilemma che investe non solo il singolo, ma la comunità nell'ora più buia, l'ora dell'apocalisse. Solo la fede nella resurrezione può aprire — questo all'ingrosso il succo del dramma — uno spiraglio fervido di luce in un mondo come il nostro che pare indirizzato sempre più verso il precipizio delle tenebre. Argomento molto impegnativo, come si vede, e che forse proprio per la sua ampiezza ha sopraffatto la mano stessa dell'autore, portandolo a voler investire contemporaneamente troppi problemi con il risultato di una dispersione di tematiche, una staticità narrativa e certe frettolose notazioni; che il metodo antologico perseguito chiamando in causa Eliot e Shakespeare, Blok e Dostoevskij solo in parte allevia. E se ho parlato di tecnica cara a Fabbri pensando a inevitabili accostamenti (Processo a Gesù, L'avvenimento e Veglia d'armi — con l'inequivocabile richiamo ai valori simbolici del sicomoro, fra l'altro — o Figli d'arte per ciò che attiene all'incursione nella natura dell'attore) devo dire che qui la materia resta meno limpida che altrove, forse perché più densa di domande senza risposta.
Paolo Emilio Poesie, Il Resto del Carlino, Bologna, 28 Luglio 1980
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