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La recensione di Luciana Libero
 

La recensione

Scaccia dei miracoli

Chi crede più ai miracoli? Ci credeva Cesare Zavattini quando scriveva per De Sica Miracolo a Milano. O Totò, che, ingaggiato da Pasolini, si chiedeva Che cosa sono le nuvole. Ma non erano i soli ingenui a credere in una realtà sovrannaturale. La problematica complessa che tocca le corde della religione ma anche lo slancio laico dell'individuo verso una possibile utopia venne affrontata nel '25 dallo scrittore danese Kaj Munk il cui testo Ordet è stato presentato l'altra sera a San Miniato.
Promosso dall'Istituto del Dramma Popolare, il testo rientra nella ricerca di un teatro spirituale, cattolico ma non confessionale, che l'istituto conduce da più anni ospitando ad ogni occasione illustri registi (come Strehler, Costa, Trionfo, Enriquez, Squarzina) e affrontando puntualmente testi di grande impegno culturale e civile. Quest'anno la scelta che è caduta su Mario Scaccia si configura come più ardua considerato che il testo servì nel '55 all'omonimo film di Dreyer che lo scelse, come Giovanna d'Arco e Dies irae per il suo veemente elogio della follia. Lo stesso autore danese ha inoltre una storia particolarissima: pastore protestante, teologo, drammaturgo, fu assassinato dalla Gestapo a soli trentasei anni, per la sua violenta opposizione ai tedeschi. Ordet, letteralmente La parola, racconta la storia di Johannes, un giovane che dopo la morte tragica della sua fidanzata è impazzito e ora crede di essere Gesù Cristo predicando come un invasato profeta. Ma se la figura di Johannes è centrale nell'opera, intorno si snodano altre importanti vicende: lo scontro tra il vecchio Borgen e il sarto Peter, adepto della setta dei pietisti; le storie personali dei figli di Borgen, di Mikkel e di sua moglie Inge, di Anders che ama riamato la figlia del sarto. Nella piccola città, come quella di Thornton Wilder, con la scena che ci presenta due simmetriche case danesi, si sviluppano i conflitti ma anche la vita quotidiana delle due famiglie: le visite del pastore, i cori dei pietisti, mentre Johannes urla il suo dolore tra le cose comuni d'ogni giorno. Una sera il sanguigno Borgen si reca da Peter per convincerlo a non ostacolare il matrimonio tra Anders e Anna, ma ne nasce un aspro contrasto suscitatore di maledizioni e di oscuri presagi. Nella stesa notte infatti Inger partorisce un bambino morto e ella stessa rimarrà vittima del parto. E qui si compie il salto mistico del testo e il richiamo, già presente nel titolo, a quel Verbo capace di ridar vita ai morti e di compiere, per chi crede, impossibili miracoli. Johannes riuscirà infatti, dopo aver ritrovato il senno, a ridar vita alla morta Inger, schiacciando con la forza del la parola e del la fede, l'incredulità e la rassegnazione alla morte.
Mario Scaccia, che qui si prodiga oltre che come attore anche come regista, ha dipanato l'aggrovvigliatà matassa con grande cura e garbo non privando gli spettatori anche di momenti leggeri e divertenti. Le scene tra una casa e l'altra si susseguono con ritmo agile e quasi tutti gli attori ci sono apparsi di ottimo livello. La parte di Borgen sembra inoltre cucita su misura per Scaccia, un padre padrone che si piega solo davanti a Dio. Qualche scena ci è parsa un tantino eccessiva, come le predicazioni dall'alto di una roccia di Johannes e lo stesso ritorno in vita di Inger, non del tutto risolto teatralmente. Bravi gli attori, in particolare Gianluca Farnese, Maggiorino Porta e David Gallarello nella parte di Johannes. E inoltre Antonello Chiocci, Consuelo Ferrara, la piccola Giada Veracini, Carlo Greco e Gianni Cecchini, Fiorella Buffa e Sonia Antinori. Bella la scena del coro dei Pietisti eseguita dalla Corale Balducci. Gremita la piazza del Duomo, prolungati gli applausi.

Luciana Libero, La Nazione, Firenze, 18 luglio 1992




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