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Corriere di Firenze - La recensione di Francesco Tei
 

Un Redentore di tredici anni
Per la 42" edizione della Festa del Teatro di San Miniato la scelta dell'Istituto del Dramma Popolare è caduta su di un lavoro degli anni '30 del commediografo gallese Emlyn Williams, attore e autore di grande successo, protagonista per tanti anni delle scene inglesi. Il dramma, dal titolo Il vento del Cielo, The wind of Heaven, è stato affidato dall'Istituto alla regia di Franco Meroni: gli interpreti principali sono Aldo Reggiani e Arnoldo Foà, e le scene (un normale interno ottocentesco, pronto però a rivelare, schiudendosi, 'presenze' e visioni allusive) sono di Stefano Pace.
Autore conosciuto soprattutto per le sue commedie 'gialle', Emlyn Williams (scomparso l'anno scorso a 81 anni) scelse il 'suo' Galles, la sua mai rinnegata terra d'origine, quale palcoscenico dell'ambizioso affresco simbolico e religioso de Il vento del Cielo: nel quale - non a caso - l'ideale, sentito con calda e appassionata emozione, di un necessario ritorno ai valori della fede si accompagna, significativamente, a quello di un recupero delle propie mai dimenticate radici gallesi. Non per niente il protagonista Emrys Ellis, nella sua seconda veste di primo discepolo del nuovo Cristo in terra, riassumerà - appunto - il suo nome gallese 'Emrys' fino ad allora rinnegato per il nome 'inglese' Ambrose: non a caso, il portavoce del coro trepido ed invisibile dei credenti del villaggio (fiduciosi, prima, nella speranza e nell'attesa, e glorificanti, poi, la gloria del Cielo), e un contadino, un uomo del popolo che, nel testo originale, parla solo gallese: lui, Evan Howell, il portavoce rustico e carismatico di una gente intera, è la voce stessa, incarnata, di un popolo. E, del resto, lo stesso Figlio di Dio ridisceso nel mondo è un tredicenne ragazzetto gallese, figlio di una povera donna ignorante: per cominciare la sua seconda missione tra gli uomini il Verbo di Dio ha scelto il paese desolato e senza vita di Blessin.
È vero che la vicenda del villaggio dove non nascono più bambini e dove soffia soltanto un vento grigio di morte può essere letta, legittimamente, anche in chiave laica, descrivendo una condizione ed una realtà spirituale di  'morte'  della vita, e della speranza, oltreché di 'morte di Dio': è un'immagine che rispecchia, anche al di là di una visione religiosa, il deserto, ed il vuoto, spesso desolante, del mondo di oggi. Tuttavia, però, la vicenda del dramma si sposta presto, e in maniera inequivocabile, sul piano di un simbolismo religioso talmente preciso ed esplicito da risultare anche meno affascinante: per la maniera rapida e sommaria, sbrigativa con cui vengono stabiliti i parallelismi fra le vicende e i personaggi del Vangelo e quelli che vediamo sulla scena. Mancano, forse, nella scrittura di Williams, quel lento e suggestivo lavoro di preparazione, quel senso di insistente disagio e di mistero che accompagnano, in tanti affascinanti drammi di questo tipo, l'irrompere graduale e quasi furtivo dell'elemento soprannaturale, e il manifestarsi della sua presenza 'clandestina'.
Nonostante questo, Il vento del cielo è, e resta, un dramma interessante, di intensa e profonda presa emotiva, originale - anche - sul piano dei significati, dei 'messaggi' mai comunicati secondo una logica catechistica. In realtà, al centro della storia non c'è tanto la seconda incarnazione di Cristo quanto l'itinerario interiore, il 'problema' che mette alla prova la coscienza di Emryn Ellis: chiamato, come tutti, a scegliere fra il vuoto angoscioso e le vane distrazioni e i riempitivi della vita 'normale' da un lato e l'impegno dietro la bandiera dei valori veri dall'altro (e di quel Sogno alto e sublime per eccellenza che è la Fede).
Con l'aiuto, naturalmente, della regia composta e lineare di Franco Meroni (colpevole solo di un prologo e un epilogo troppo illustrativi e... catechistici) gli attori dello spettacolo di San Miniato rimediano abbondantemente alle eventuali manchevolezze del dramma dando forma a un lavoro scenico che convince e conquista.
Arnoldo Foà, in particolare, dà forma davanti a noi ad una dimostrazione di come il carisma e il senso sapiente della misura di un grande attore riescano a fare di una figura confusa e in gran parte inconsistente un personaggio grande e memorabile. La sua parte è quella del razionale Pitter, il direttore del circo... alla Barnum di cui è proprietario il più impressionabile Ellis. L'attore fa, di questo personaggio, una sorta di coscienza profonda e partecipe, che osserva e commenta ciò che accade accogliendone, dentro di sé, l'eco intensa d'emozione. Ricordiamo, di Foà, il conversare vivace, ed amabile, il garbo, la naturalezza, l'ironico e solo apparente distacco: e inoltre, nel breve monologo finale, il mutarsi, quasi della recitazione in meditazione, in riflessione spoglia e interiore, profonda. Bravissimo anche Aldo Reggiani che ha disegnato sempre con vibrante sollecitudine e tesa e nervosa partecipazione l'itinerario interiore di Emrys Ellis: rapido e frettoloso nel parlare, sardonico, quasi, all'inizio, è sincero, poi, nell'abbandonarsi gradualmente alla conversione; e ancora dubbioso, in un primo tempo, e subito dopo malvagio nel momento di cedere alla Tentazione.
Terza... stella dello spettacolo è Angela Cardile (Bet), Madre di Dio rustica e di paese: lontana dai toni devozionali che potrebbe suggerirle il personaggio, lo colorisce al contrario di un'intonazione popolaresca, nel senso però più credibile e meno banale del termine. Nel racconto tragico della morte del figlio sa commuovere senza ricorrere a sortite lacrimevoli, ma puntando invece su di una fierezza quasi gioiosa, tutta terrena, di madre che si ricorda l'amore del suo bimbo. Nunzia Greco (Dylis) parte mostrando un'impostazione drammatica un po' incerta (in cui balenano, peraltro, tratti spogli e convincenti di modernità): ma arriva, poi, piano piano, al controllo rigoroso di una recitazione classica e sicura. Azzeccata anche la signora Lake (Tentatore e Satana in gonnella) di Paola Bacchetti: sempre emozionata e sollecita la Menna di Alessandra Celi. L'Evan di Luciano Fino, purtroppo, era lontano (forse non per colpa sua), da quella significativa figura di patriarca sofferto e popolaresco che verrebbe di scorgere nel personaggio.
Citazione, infine, anche per il piccolo Mattia Cominotto (il giovane Gwyn-Gesù). Applausi.

FRANCESCO TEI, Corriere di Firenze 16 luglio 1988




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