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Il Tirreno - La recensione di Ermanno Romanelli
 

Scaccia diventa mistico
Un intervento «sfacciato» sul testo (come ha dichiarato il responsabile Mario Scaccia), con il taglio degli originali quattro atti, condensati in due, e la frantumazione e lo spostamento delle battute, realizzata allo scopo di «vivacizzare il racconto e far sì che il pubblico si divertisse».
Con queste e altre necessarie premesse, la scelta platea raccolta nella piazza del Duomo di San Miniato, ha salutato il debutto nazionale di Ordet (La parola, 1936) del drammaturgo danese Kaj Munk (1904-1944), che Mario Scaccia ha diretto e interpretato, con il supporto di attori professionisti e non, per la XLVI edizione della Festa del Teatro.
Questa scelta mantiene alto il profilo che l'Istituto del Dramma Popolare si è guadagnato in quarantasei anni di vita, esibendo un teatro intimamente «legato all'anima dell'uomo contemporaneo, limitatamente alla drammaturgia del '900».
Uno sguardo che attualmente si cerca di ampliare dal sacro e devozionale per ancorarlo sempre più ad un teatro dello spirito, per riflettere «sulla parola che diventa teatro, su modelli narrativi e tematiche vicine al teatro popolare», per un teatro che «si faccia nei luoghi dove il popolo, la gente comune si aggrega».
A San Miniato valgono testi imponenti come Ordet, tradotto per il cinema da Gustaf Molander, nel '43, e dal terribile Carl Theodor Dreyer, Palma d'oro a Venezia nel 55. Mario Padovan ha concretizzato le scene dello spettacolo in tre ambienti a camera l'atmosfera e le luci di un freddo inverno nella Danimarca luterana.
L'ambiente è quello di una fattoria dello Jutland, dove Mario Scaccia è il tonante capofamiglia Mikkel Borgen, che contrappone il proprio credo grundtvighiano a quello pietista di Peter, il sarto, vedendo schierati o indifferenti i propri figli e l'amore di uno di essi, Anders, per Anne, figlia del rivale.
Ma, oltre le pesanti dispute teologiche (quasi incomprensibili al pubblico italiano e perciò giustamente azzerate dalla regia), quella che viene realmente messa in discussione nel testo (ed esaltata da Scaccia) è la fede nella parola di Dio.
Quella stessa «parola» che Johannes, il figlio teologo e «pazzo» (nella interessante prova di David Gallarello), si incarica di annunciare a pragmatici e positivisti resuscitando Inger, la cognata morta di parto, in una mirabolante scena finale che da sola illumina di palpitante misticismo questa «leggenda moderna», intrisa di serrati squarci psicologici da dramma strindberghiano.
Una cupezza di tinte, squisitamente nordica, a tratti smagata dall'arte istrionica di caccia, che spesso indugia in effetti strappasorrisi, e guida comunque al successo il drappello della volenterosa compagnia.
ERMANNO ROMANELLI, Il Tirreno 18 luglio 1992




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