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La recensione di Renato Palazzi
 

La recensione

La morte su un mare di marmo
Fra i grandi racconti marinari della letteratura di tutti i tempi Billy Budd è forse quello che più si avvicina, se non a un andamento da tragedia classica, o da sacra rappresentazione in senso stretto, almeno a una sorta di potente dramma interiore, di raffigurazione — in fondo circoscritta entro la sfera della psiche — del segreto conflitto tra l'angelo e il dèmone, tra il principio del Bene e il principio del Male.
Per quanto l'azione di questo estremo capolavoro di Melville — scritto a pochi mesi dalla morte — prenda corpo sul tenue confine tra cielo e mare, sospesa alla soglia dei grandi spazi dell'avventura, del viaggio e della navigazione, lo spazio vero in cui il romanzo si svolge è quello insondabile degli istinti e delle passioni, dove i fatti e le concrete spiegazioni dei fatti perdono consistenza, e sembrano cedere il passo alla riflessione metafisica sui concetti dell'innocenza e della colpa.
Quale impulso oscuro spinge John Claggart, maestro d'armi sul vascello britannico «L'indomita», individuo dal passato torbido e misterioso, a prendere in odio la nuova recluta Billy Budd, il gabbiere, emblema di lealtà e dedizione all'oceano, ai compagni e alla nave fino ad accusarlo ingiustamente di sedizione? Quale destino muove la mano inconsapevole di Billy a colpire come in trance il suo detrattore, uccidendolo sul colpo? Siamo nel 1797, in pieno clima rivoluzionario, e la prospettiva che le idee di libertà dilaghino dalle vicine coste francesi genera negli ufficiali di sua maestà l'ossessivo timore di ammutinamenti. Ma il contesto storico non spiega una vicenda i cui contorni paiono fissati da un Fato superiore che guida i passi dei personaggi, la determinazione con cui Claggart deve distruggere quell'immagine di purezza, la serenità con cui Billy intraprende la strada del patibolo sul quale sarà giustiziato.
Opportunamente il regista Sandro Sequi, nello spettacolo allestito per la cinquantunesima Festa del Teatro dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato — che dal '47 promuove una drammaturgia di intonazione variamente spirituale — ha accentuato soprattutto questi tratti di un percorso immobile, sottratto al precario divenire delle cose umane. Anche l'impianto scenico dello scultore Pietro Cascella evoca una nave che non conosce l'urto delle onde, nave marmorea su flutti marmorei, candida massa plastica che coi suoi cannoni e le sue vele di (finta) pietra richiama non tanto una metaforica cattedrale galleggiante quanto un enorme monumento tombale. E lo stesso equipaggio dell'«Indomita», il capitano e persino Billy — grazie ai costumi di Cordella Von Den Steinen — sono parvenze bianche come statue, effigi di gesso di esistenze ormai trascorse, salvo Claggart che è l'unico a spiccare per il livido colore violaceo della divisa, l'unico vivo nella sua perfidia in un fragile mondo di fantasmi.
Ovviamente Billy Budd non è stato concepito per la rappresentazione, e lo si nota da un'infinità di sfumature. L'autore del copione, Enrico Groppalli, ha svolto un egregio lavoro, attuando il passaggio dalla pagina alla scena con rispetto e delicatezza: ma è comunque fatale che si perda gran parte della densità di scrittura di Melville e del suo stesso spessore di pensiero — ovvero di quell'intricato tessuto di piccoli soprassalti mentali che conducono il lettore a significati altrimenti non sintetizzabili — mentre si avverte d'altronde che gli manca il ritmo, la necessità incalzante di un autentico testo teatrale. A dar sostanza alla materia c'è per fortuna il robusto apporto interpretativo di Massimo Foschi, un tormentato capitano Vere, e più ancor di Corrado Pani, un Claggart dagli imprevedibili doppifondi, sospinto da una malvagità lucida e disperata, mentre nel ruolo del titolo dimostra convincenti doti il giovane Maximilian Nisi.

RENATO PALAZZI




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