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Il Piccolo - La recensione di Sabrina Lucchi
 

Sul palco e in piazza, alla ricerca della pace
A San Miniato, cittadina sulle dolci colline toscane, si è tenuta dal 23 al 28 luglio la 58esima edizione della "Festa del teatro", appuntamento annuale con opere e autori che stimolino la riflessione sui problemi e sulle inquietudini spirituali del nostro tempo. Appuntamento a cui la Fise, Federazione italiana settimanali cattolici, già da anni partecipa e sostiene.
Il testo dello spettacolo di quest'anno, Il dilemma del prigioniero dell'inglese David Edgar, è incentrato sulle inevitabili difficoltà che incontra chiunque desideri avviare e portare a conclusione un processo di pace. Il testo di Edgar, rappresentato per la prima volta nel luglio 2001 in Inghilterra e alla sua prima rappresentazione in Italia, risulta quanto mai attuale nel suo interrogarsi sulle possibili soluzioni ai conflitti e sulle difficoltà delle parti nel mettersi in ascolto dell'altro per giungere alla pace. La storia ha inizio nel 1989. In un'università californiana studenti e professori simulano un negoziato di pace tra un ipotetico governo, dichiarato illegittimo dall'Onu, e un gruppo di rivoltosi. Entrambe le parti non hanno mai esitato a far ricorso alla violenza. Ora che si trovano faccia a faccia sono chiamate ad ascoltare, e comprendere, le ragioni dell'altro. Eppure la diffidenza e la paura di lasciare prevalere le posizioni altrui ingabbiano le parti in un balletto lessicale, un continuo contestare termini ed espressioni dell'avversario, erose dal tarlo del sospetto. Nel corso di questo "gioco di ruolo" viene fatto cenno anche a quel "dilemma del prigioniero" che dà il titolo all'opera. È il bivio di fronte al quale si trova ogni persona arrestata insieme a un complice. Interrogato da solo, in una stanza separata dal proprio compagno, come si comporterà il prigioniero? Credendo che il complice abbia già "cantato" confesserà tutto, accettando uno sconto di pena? O piuttosto terrà duro, per non tradire la fiducia del proprio collega e sperare in un'assoluzione, correndo il rischio però di venire tradito e condannato al massimo della pena? Quello che sembrava un esercizio accademico, un sottile gioco psicologico per aspiranti diplomatici, si ripeterà in modo ancora più complesso qualche anno dopo. Naufraga nuovamente la proposta della creazione uno Stato democratico unito e multietnico. Ma quale vittoria e quale pace può veramente definirsi tale se non è fondata sulla giustizia? La vittoria presunta quindi, altro non era che uno "sconto di pena" ottenuto dall'immaginario prigioniero in cambio del tradimento del compagno. Ma ogni vera pace dovrebbe basarsi sulla fiducia reciproca.
Sabrina Lucchi, Il Piccolo, 30 luglio 2004




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