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La recensione di Eligio Possenti
 

La recensione

La colpa di uno è colpa  di ognuno

È il settimo spettacolo che l'Istituto del Dramma Popolare della Città di San Miniato offre nel periodo estivo e anche questa volta, come già per l'Assassinio nella Cattedrale di Eliot, non all'aperto ma nella monumentale chiesa di San Francesco; ed è il dramma della responsabilità. Ugo Betti ha lasciato, oltre a questo, altri due lavori: La fuggitiva di prossima rappresentazione al Festival di Venezia e un copione di cui non si hanno precise notizie. Egli ha sempre avuto caro il problema della responsabilità: responsabilità e giustizia, poiché l'un tema si connette con l'altro.
Il primo ha, a suo tempo, suggerito a Ibsen Nora di Casa di bambola e Ellida della Donna del mare e il Betti stesso l'ha di frequente ripreso. Basti ricordare, tra i suoi primi drammi, Frana allo scalo nord nel quale terrazzieri processati e assolti dopo un disastro provocato da un crollo, sentono, in seguito all'assoluzione, il peso della colpa e della responsabilità; e, tra i più recenti, Corruzione al palazzo di giustizia in cui il reo, giudice Curt, pur salvato dal collega Crost che, dovendo morire di mal di cuore si accusa in sua vece, prova il tormento e il rimorso dell'impunità e va a denunciarsi.
Ma nel nuovo dramma, L'aiuola bruciata, non si tratta più soltanto di responsabilità individuale, bensì collettiva. Il protagonista Giovanni proclamerà, alla fine del lavoro, che tutti sono imputabili delle brutture che deplorano e soffrono e che la colpa di uno è la colpa di ognuno. Questo Giovanni è un capopopolo che, stanco e scaduto nella valutazione dei suoi adepti, si è appartato in una casa presso la frontiera (non si sa mai) insieme con la moglie Luisa, sempre disperata d'aver perso, per disgrazia, l'unico loro figlio, Guido, appena quindicenne.
Morte di Guido e avventura politica. Sono questi i due motivi che nel dramma procedono paralleli, l'un l'altro a vicenda sopraffacendosi in un alterno gioco troppo scoperto nei primi due atti, del resto solidamente costruiti, fino a fondersi felicemente nel terzo, a nostro avviso il migliore dei tre sotto il rispetto artistico. In teatro contano, sì, le idee, ma conta soprattutto l'arte di esprimerle scenicamente.
La fine di Guido è stata tragica. Lasciato solo in casa, è stato trovato sfracellato nella aiuola del cortile. Da quel giorno Luisa si arrovella nella ricostruzione dell'inspiegabile fatto. E ciò rende Luisa il personaggio più umano e interessante del dramma. Un giorno si presenta a Giovanni un tale Tomaso, pezzo grosso fra i suoi amici, a proporgli di rientrare nei ranghi e di assumersi l'incarico di recarsi alla frontiera in un giorno stabilito sventolando, a segnale, un drappo bianco per un incontro già predisposto con i rappresentanti di quelli di là. Tomaso ha con sé altri colleghi tra i quali il capo che ha sostituito Giovanni e la candida Rosa, orfana giovinetta di un compagno trucidato da loro stessi, poiché, in quel momento, avevano bisogno di un morto.
Al rifiuto di Giovanni, gli altri tremano: essi hanno un loro piano segreto. Urge, per le loro mene politiche, un altro morto. Il designato è Giovanni che al suo apparire col bianco segnale sarà preso a fucilate. Egli, ignaro, dopo aver dichiarato che non è più convinto che l'errore sia di quelli di là, finisce col cedere.
La candida Rosa vigila; ha scoperto la infame trappola e lo avverte in tempo. Egli fugge ma Luisa, travolta da un odio insano per il marito che ella ritiene la causa della morte di Guido, lo tradisce. Arrestato dagli sgherri di Tomaso e ricondotto in casa i nodi si sciolgono.
E,  a  scioglierli,  interviene,  fragile,  gentile,  poetica e mistica «dea ex machina» la dolce e candida Rosa che, alle invettive di Giovanni contro gli uomini e alla rivelazione di costui che Guido non è morto per disgrazia, ma per suicidio, oppone le parole della Fede, eleva una voce di speranza. Giovanni grida che l'individuo non conta ma contano le cose e che la vita comanda (questo è anche il concetto della prima commedia di Betti La padrona) e infine che tutti gli uomini sono responsabili della morte di Guido e dei mali del mondo; e Rosa, la eburnea, innalza, in mezzo a quei personaggi che nella pratica quotidiana dell'«homo homini lupus» hanno smarrito la fiducia nel domani, la certezza evangelica che gli uomini un giorno cesseranno di uccidere e di uccidersi, percepita da una superiore illuminazione. Quasi a prova, prende il drappo bianco e sventolandolo esce. Una fucilata la abbatte. Giovanni ne raccoglie il tenero corpo. Il martirio è compiuto e non sarà stato inutile. Il martirio è il più alto messaggio della Fede. E Giovanni può dire: «Andiamo. Ora non spareranno».
Che tutto sia chiaro in questo dramma che conta un presentimento della morte e un sentimento del divino non si può dire. Ma il finale ha una sua suggestione. Pare ci balenino luci di poesia. L'aver lasciato, prima, tutto indeterminato, allusivo e non allusivo (si pensa al metodo di Kafka) l'averci tenuti in bilico fra la realtà e il simbolo o meglio fra la realtà di fatti da dramma di intreccio e la trasfigurazione che tali fatti eleva in un clima poetico, ci fanno in parte convinti, in parte perplessi. Ma siamo sempre dinanzi ad un'opera di teatro di alta levatura con scene forti, scritte in un linguaggio netto, scarnito e vibrato. È del Betti migliore: il Betti che perseguiva modi, forme e contenuto di una creanda tragedia moderna.
Orazio Costa ne ha curato la rappresentazione con la Compagnia del Piccolo Teatro di Roma infondendo un ritmo lento e solenne atto a creare il mistero di un tono quasi fantomatico ai personaggi che hanno avuto mirabili interpreti. Evi Maltagliati, bravissima Luisa con la sua bella e calda e profonda sofferenza e la duttilità della sua voce penetrante; Camillo Pilotto con la sua franca sicura maestria nel precisare i tipi, tanto più meritevole in questo Giovanni che non ha linee ben definite; Roldano Lupi ha dato a Tomaso una severa e tirannica inesorabilità; Sandro Ruffini, ottimo attore sempre è stato sincero e comunicativo; Stella Aliquò ha detto con serafica espressione le incantate parole della candida Rosa. Il pubblico ha accolto il dramma con vivi consensi. Prima della recita, Silvio D'Amico ha parlato, assai applaudito, con affettuosa ammirazione e con acutezza di Betti e del suo teatro. Lo spettacolo si ripeterà per parecchie sere.

ELIGIO POSSENTI, Corriere della Sera, Milano, 26 Settembre 1953




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