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Il Tirreno - La recensione di Pamela Pucci
 

Testo difficile, attori bravi
A metà strada tra fiaba e tragedia Il Cavaliere di Ventura, tratto dal testo di Cavosi e messo in scena con la regia di Beppe Menegatti in prima assoluta a San Miniato dall'Istituto del Dramma Popolare, oscilla tra felicissime intuizioni e indugi forse eccessivi.
Uno spettacolo in cui ci sono incisive battute cariche di ironia e momenti dove allegoria e simbolismo si fanno tanto forti da divenire difficilmente comprensibili Alla base, un testo difficile, denso di immagini e significati, che fatica a essere penetrato, nonostante l'ottima interpretazione degli attori e la poesia dei momenti danzati da Carla Fracci. Non troppo felice la scelta di usare perifrasi ed espressioni latine per caratterizzare i personaggi della Morte e del Diavolo: se la lingua arcaica contribuisce a dare colore e mistero, al tempo stesso rende la rappresentazione meno comprensibile.
In ogni caso il Dramma della 53a Festa del Teatro merita di essere visto. Un contributo notevole alla qualità dello spettacolo viene dall'interpretazione degli attori, capaci di portare in scena personaggi al tempo stesso coerenti e contraddittori, reali e immaginari.
Carla Fracci è immancabilmente leggiadra nella danza, sa essere un'Ofelia languida e sognante, trascinata dagli eventi, illusa e delusa, capace di abbandonarsi totalmente al suo Amleto, interpretato da un bravo Riccardo Massimi, e di struggersi di dolore dopo il suo abbandono. Gazzolo conferma la sua bravura dando voce ai dubbi e alle velleità spirituali del Cavaliere Fortebraccio, un guerriero in preda a domande mistiche, desiderato dal Diavolo ma sedotto dall'acqua purificatrice della Fonte della Vita, al secolo Paola Roscioli. Decisamente anticonvenzionali e accattivanti i personaggi della Morte e del Diavolo, interpretati da Angela Cardile e Maximilian Nisi. La Cardile dà volto e voce a una signora delle tenebre che sa essere materna e pietosa, imparziale spettatrice delle vicende umane, ironica e autoironica. Nisi è un demoniaco estremamente «fisico» che oscilla tra una gestualità sensuale e slanci puerili. Sempre in scena i due becchini, anima della vicenda, che partecipano delle visioni di Fortebraccio sdrammatizzandole. Massimo Di Michele, il becchino giovane e ribelle, dalla gestualità estremamente espressiva, e Gian Luca Farnese, il becchino maturo e riflessivo, coinvolgono lo spettatore con i loro litigi, con il loro lessico confuso, con la vitalità, la normalità delle loro azioni e reazioni. Breve, ma buona, la parte riservata all'agrimensore, Cesare Lanzoni.
Pamela Pucci, Il Tirreno 24 luglio 1999




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