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Le note di regia di Fabio Storelli
 

Fabio Storelli al suo vicino di sedia
Se volete da me il significato di questo dramma Oltre le trincee, giuro che non ve lo saprei dare; e non perché non sappia che cosa io abbia scritto, ma perché il teatro è « teatro » proprio perché ognuno sappia o voglia adattarselo a se stesso, come un abito o come un peccato. Il mio dramma (e cito Dostoevskij; dai Demoni) il mio dramma « danza nudo davanti a voi », come dire che è esposto senza veli davanti ai vostri occhi, giustamente privo di spiegazioni contestuali, note, suggerimenti.
Che altro potrei aggiungere ad uno spettatore che « mi » sta osservando? Che anni fa io scrissi un dramma (Antonio nel deserto) ricavato dalla Tentazione di Sant'Antonio di Flaubert e lo scrissi per Tino Buazzelli; Tino si innamorò di questo dramma e lo volle mettere in scena con una sua idea di distribuzione di parti e di ambientazione che io non condividevo. Lo supplicai di rivedere questo suo progetto (tre attori facevano la parte di Uario, il tutto si sarebbe dovuto svolgere entro una scena di festa paesana con canzoncine popolari e scherzi plateali) ma Tino era fermo nella sua idea.
Dopo due notti di prove mi telefonò (saranno state le tre, tre e mezza di notte) e dopo una sua icastica espressione di arrabbiatura mi comunicò che non poteva andare avanti, che in fondo avevo avuto ragione io a spingerlo a realizzare l'Antonio in un altro modo, ma che adesso era meglio sospendere le prove e riprenderlo a tempo opportuno. Quel tempo opportuno con Tino non venne più ed io mi trovai con questo dramma nel cassetto.
Una mattina d'estate, due, tre quattro anni fa mi ronzava qualcosa in testa sull'Antonio tentato, anche perché mi ero letto una bella pubblicazione di Ferdinando Ormea su Teilhard de Chardin e mi era venuta un'idea. Mi misi alla macchina da scrivere e « aggiunsi » Pierre, la trincea e la guerra. Finii questa nuova versione, me la rilessi, ma non mi sembrò per nulla finita. L'Antonio ritornò nel cassetto.
Ma io sentivo che il tema poteva essere meglio sviluppato e che prima o poi avrei dovuto rimetterci seriamente le mani. La qual cosa feci in due riprese, una prima volta rimasticando il tutto in una dimensione più « quotidana » (il mondo di Margherita, il personaggio « vero » del Capitano, Padre Duval e la sua gran barba da profeta) una seconda volta riscrivendo da capo a fondo il secondo atto, in una furiosa giornata, nottata e giornata ancora di un sabato e di una domenica. Quella domenica — a prima sera — rilessi il dramma e terminai con un grumo d'emozione in gola perché, andando avanti con la lettura, mi accorgevo che questa volta il mio dramma era finito. Non dico che fosse valido o che non fosse valido: dico solo che era finito, il percorso si era concluso, avevo come il nocchiero di Enea « classique immissus habenas »; stretto a me il morso del cavallo e della flotta degli dei, avevo finito la corsa del mio viaggio e raggiunto la riva.
Certo nel guardarmi indietro, ora che il ramo d'oro l'ho strappato dall'albero sacro e sono pronto a « danzare nudo » davanti agli spettatori, a « proporre me stesso », quei due straordimari compagni di viaggio che sono stati l'Antonio di Flaubert ed il Pierre di Teilhard mi danno sgomento, che è esaltazione e paura al tempo stesso. Mi da conforto pensare che stare seduto sulle spalle dei giganti è una condizione che appartiene un po' a tutti noi, oggi. Ma mi da ancora più conforto pensare che io ho scritto questo dramma perché voglio comunicare qualcosa della mia fede sud futuro, convitato come sono ohe la creazione del mondo è appena cominciata e che la metamorfosi è un segno di Dio.
Come vedete: vi ho forse dato il significato dal dramma? No. Siate buoni: pensateveli da voi significati e motivi di questo teatro in trincea e semmai raccontateli pure a me: l'autore di questo dramma è forse seduto nella poltrona  accanto  alla vostra.
Fabio Storelli




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