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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

La leggenda dell'eroico Billy Budd «affoga» nella piazza di San Miniato
Niente mare, ma acqua sì. Ripetuti, insistenti scrosci di pioggia hanno più volte disperso il folto pubblico assiepatosi (i più prudenti s'erano muniti di ombrelli) nella piazza del Duomo sanminiatese per assistere all'anteprima di Billy Budd, adattamento teatrale, a firma di Enrico Groppali, del bellissimo racconto postumo dello scrittore americano Herman Melville (1819-1891). Poi, la sopravvenuta clemenza del cielo ha consentito al regista Sandro Sequi, sia pure con buon ritardo, di dare avvio allo spettacolo; che, del resto, si concentra in meno di un'ora e mezza, senza intervallo, e che la tenace platea ha seguito fedelmente, decretandogli, alla fine, un caldo successo.
Billy Budd, «gabbiere di parrocchetto», è un trovatello, un giovane puro di cuore che si fa ben volere da tutti, o quasi, a bordo della nave da battaglia inglese detta l'«Indomita», sulla quale è stato arruolato (siamo nel 1797, proprio due secoli fa, all'epoca delle guerre napoleoniche). Ma c'è chi, tra i suoi compagni, gli tende trappole, e chi, tra i superiori, falsamente lo accusa di tramare ribellioni: è costui il maestro d'armi John Claggart, che pure, da principio, è sembrato manifestare verso il ragazzo un'equivoca simpatia. Condotto dinanzi al comandante Vere, uomo severo ma giusto e acculturato, Billy, cui nelle forti emozioni si strozza la parola in bocca, colpisce con un pugno il suo calunniatore, e questi rimane stecchito. Quantunque travagliata, la sentenza della piccola corte marziale costituita sul bastimento non potrà essere che la pena capitale. Billy, dunque, verrà impiccato, affrontando la morte con toccante serenità. Ma attorno a lui fiorirà una sorta di leggenda, e una scheggia del pennone al quale lo appenderanno sarà venerata come un frammento della Croce di Cristo.
Di riferimenti evangelici e biblici non difetta il testo di Melville (e non è il solo, nella vasta opera del grande narratore). Ora, essi sbiadiscono alquanto nella riduzione scenica; mentre svanisce il tema dell'omosessualità, rilevato da vari commentatori (ad argomentare, soprattutto, l'atteggiamento di Claggart, ove non si voglia farne un'incarnazione del Male assoluto). Il lavoro di Grappali denota, nel complesso, strane omissioni e, viceversa, inserzioni. Scompare la figura del Cappellano, marginale ma importante. Si dilata a dismisura quella d'un Caporale spietato fustigatore, che irresistibilmente ricorda (anche per la corporatura dell'attore Giancarlo Condè, simile alla stazza dell'indimenticabile Charles Lughton) la miglior versione cinematografica dell'Ammutinamento del Bounty. Insomma, abbiamo davanti una tragica vicenda marinara, non diversa da tante altre, delineata, a tratti con efficacia, tutta in superficie, con scassi affondi negli oscuri recessi dei personaggi e delle situazioni. D'altronde, non meno deludente ci parve il film che da Billy Budd ricavò, nel 1962, Peter Ustinov (la stessa novella fu anche messa in musica, nel 1951, da Benjamin Britten). Forse la pagina melvilliana fa resistenza, di per sé, alla traduzione in altre forme espressive (sullo schermo e sulla ribalta ad esempio, nel sublime Moby Dick hanno variamente inciampato sia John Huston sia Vittorio Gassman...).
La Festa del Teatro è comunque giunta cosi, con onore se non con splendore, alla sua cinquantunesima edizione. All'attivo dell'attuale allestimento, il bianco veliero costruito, quale ambiente unico del dramma, dallo scultore Pietro Cascella, e sul quale la regia di Sequi fa muovere agilmente i suoi attori; che offrono, nell'insieme, prestazioni più che dignitose: nei ruoli principali si fanno apprezzare Maximilian Nisi (Billy), Massimo Foschi (Vere), Corrado Pani (Claggart). Da citare pure Maurizio Gueli. Repliche a San Miniato, tempo permettendo, fino al 23 luglio. Previste, quindi, trasferte alla Versiliana e a Borgio Verezzi.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità , 19 luglio 1997




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