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La recensione di Sara Mamone
 

La recensione

Morte a Firenze per il Lorenzo di Mann

Fiorenza è l'unico lavoro scritto da Thomas Mann per il teatro, nel 1905, rappresentato con scarsi entusiasmi qualche anno dopo e poi lasciato languire. Che Thomas Hann era e sapeva d'essere 'romanziere e teorico e l'arte sua di drammaturgo, tentando una sorta di conciliazione tra Schiller e Goethe, non giunse ad autonomia di genio. Ma non per questo Fiorenza meritava di restare sconosciuta al pubblico italiano, al quale in questi giorni la presenta Aldo Trionfo a San Miniato, nel 40° anniversario della nascita dell'Istituto del Dramma Popolare.
Forse non dimentico dell'opionione di chi voleva la Commedia di Callimaco e Lucrezia (ossia La mandragola) opera allegorica nella quale Lucrezia rappresentava la città di Firenze contesa e corrotta da due diversi partiti, lo scrittore tedesco, affascinato dal conflitto che poteva prendere forma di lotta umana tra Girolamo Savonarola e il grande Lorenzo, fa di Fiorenza, fanciulla bellissima amata dal Magnifico negli ultimi suoi malati anni e pubblicamente umiliata in chiesa dall'intransigente priore di San Marco, il perno emblematico di un conflitto. Affidata alle aggraziate movenze di una Sabrina Capucci armoniosamente e credibilmente abbigliata da botticelliana Primavera, la fanciulla fa da tramite umano e pratico al conflitto tra i due titani.
Ostili l'uno all'altro, Lorenzo e Savonarola, irreparabilmente perché portatori e simboli di due opposte concezioni del mondo. E intorno i grandi nomi della storia. Perché gli amici di Lorenzo erano Angelo Poliziano, Giovanni Pico conte della Mirandola, gli artisti della cerchia di Botticelli, perché la memoria delle dolci veglie e delle feste è coscienza che lì sarebbe nato il gran teatro dei secoli successivi. Perché Firenze è nella cultura, anche un po' approssimativa del pubblico straniero, tutta compresa tra Lorenzo, Savonarola e Machiavelli.
Ma se la storia guata la leggenda (e non bisogna dimenticare che l'ombra dell'eresia, la lunga ombra di Luterò non poteva non stendersi sulla memoria del pubblico tedesco al quale l'opera era per natura destinata) alla fine è lo scontro tra uomini, cioè tra figure drammatiche, che fa da nucleo alla vicenda. Riducendo molto opportunamente la durata dello spettacolo e il numero dei personaggi, Aldo Trionfo e Marco Bongioanni hanno semplificato il contorno, hanno ridotto la corte del Magnifico ai pochi nomi essenziali d una memoria e di una cultura hanno isolato un uomo alle soglie della morte, circondato dai fantasmi del suo passato e del suo futuro.
Ci sono due punti alti nel dramma, quelli del commiato, quando Lorenzo padre e sovrano affida ai figli il suo testamento spirituale e alla sua donna un'ultima confessione di passione. L'altro, al quale tutta la regia giustamente tende, è il riconoscimento tra i grandi avversar!, quando, chiamato a Careggi, al capezzale del morente, l'intransigente fra' Girolamo non rifiuta la sua presenza, né la sua assoluzione. La sobrietà è la cifra dello spettacolo, anacronistico forse nel suo parlare troppo alto, ma consonante con il luogo e coerente con gli scopi sanminiatesi. Spettacolo che forse in esportazione perderà non poco del fascino che, sul sagrato della chiesa, con la limpida luna e la canonica brezza notturna, non gli si può negare.
Grazie anche alla bella vena di Virginio Gazzolo (aspro e sottile nel misurare la passione del frate) e all'autorevolezza di Arnaldo Foà che pure avremmo voluto un po' meno «rotondo», percorso anche nel corpo da quei brividi che le parole così frequentemente tradiscono.

Sara Mamone, L'Unità , Roma, 13 Luglio 1986




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