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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

Ti-Jean e i suoi fratelli. Una scena per il Nobel Walcott
Nacque nel lontano 1947 la Festa del Teatro, promossa dall'Istituto del dramma popolare; e questo di oggi è il suo quarantasettesimo spettacolo. Scorrendo l'elenco degli allestimenti, ci si rende ben conto di come il criterio fondatore di tale iniziativa, vòlto a valorizzare una drammaturgia nutrita di problematiche religiose, o spirituali in senso lato, si sia mantenuto, e abbia ampliato il suo respiro, grazie all'apertura mentale degli animatori: anche nel periodo più cupo della guerra fredda, quando anzi l'Istituto e la Festa poterono giovarsi del coraggio e dell'intelligenza d'un sacerdote di alti meriti, Don Giancarlo Ruggini, della cui immatura morte si celebra il ventennale.
E veniamo all'«evento» attuale. Che è la prima messinscena, nel vecchio continente, d'uno dei testi teatrali di Derek Walcott, lo scrittore caraibico di lingua inglese (è nato, nel 1930, in un'isola delle Piccole Antille, già colonia britannica), laureato, pochi mesi fa, del Premio Nobel. Ti Jean e i suoi fratelli (or ora pubblicato con un altro lavoro per la ribalta, nella versione italiana di Annuska Palme Sanavio, dalle edizioni Adelphi) esordì nel 1958 a Trinidad, e qui venne riproposto nel 1970 col rivestimento delle musiche di André Tanker. Si tratta di una favola, che può echeggiare anche le nostre «moralità» medievali: tre giovani fratelli, Gros-Jean, Mi-Jean e Ti-Jean, figli d'una povera vedova, sono sfidati a gara, l'uno dopo l'altro, dal Diavolo. Il quale si dichiarerà perdente, e ripagherà con danaro sonante l'avversario, se questi, senza perdere mai la calma, farà saltare i nervi a lui, al Maligno, inducendolo a provare sentimenti umani, dall'ira alla pietà. Ardua contesa, anche perché il demonio si presenta sotto aspetti diversi (d'un saggio vecchio che abita nel bosco, d'un piantatore esoso ma dai modi bonari). Sia il primo fratello, che confida solo nella forza fisica, sia il secondo, che vacuamente filosofeggia, saranno sconfitti, uccisi e sbranati. A battere il Nemico sarà proprio Ti-Jean, con la sua furberia dall'apparenza sempliciotta, venata d'un buon grano di follia (vien da pensare al nostro Bertoldo).
Ma il personaggio più nuovo per noi, e più toccante, è il Bolom, creatura informe, «spirito dei bambini non nati», costretto a far da messaggero al Diavolo, ma che chiede solo, e alla fine ottiene, di poter anch'egli «venire al mondo», pur avendo avuto conoscenza, da spettatore, delle miserie della vita, dell'ineluttabilità del dolore e della morte.
Di contorno, narratori e commentatori della favola, una schiera di animali parlanti (il Ranocchio, il Grillo, la Lucciola, l'Uccello), che rappresentano la tenace continuità della Natura, rispetto all'estinguersi dei singoli viventi.
Questa «commedia musicale», dove motivi d'importazione europea s'intrecciano a vigorosi spunti ricavati dalla cultura afroamericana e amerindia, sembra possedere dunque, sulla carta, uno spessore linguistico e tematico che lo spettacolo restituisce solo in parte, nonostante il generoso impegno dei suoi realizzatori, a cominciare da Sylvano Bussotti, regista scenografo costumista curatore delle luci. I «numeri» canori e ballettistici recano l'impronta d'un folclorismo abbastanza di maniera, richiamando alla memoria certe riviste «esotiche» di altra epoca. Mentre, a esempio, rischia di sfuggire la differenziazione non solo cromatica, che il testo suggerisce, tra il Diavolo, bianco nelle sue varie incarnazioni, e i suoi avversari, tutti Neri. E insomma era forse da far risaltare meglio la nervatura anticolonialista dell'opera
(Walcott ha scritto altresì un dramma sulla storica «rivolta di Haiti», argomento che ispirò, tra gli altri, il poeta antillano Aimé Césaire e il romanziere cubano Alejo Carpentier).
Perno della compagnia Remo Girone che, popolarmente consacrato come il Cattivo della Piovra, impersona qui, con apprezzabili sfumature, il Cattivissimo. Degli altri, ricorderemo, con Victoria Zinny che è la Madre, Gianni De Feo come Ti-Jean, Antonello Chiocci, Leandro Amato, Antonio Fabbri, soprattutto Massimo Fedele come Bolom. Caldo il successo.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità 17 luglio 1993




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