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La Stampa - La recensione di Masolino D'Amico
 

Bernanos, la fede c'è ma non si vede
L'impostura, secondo romanzo di Georges Bernanos pubblicato nel 1927, dev'essere un libro notevole, come tutto sommato lo è la sua riduzione teatrale curata dagli sceneggiatori cinematografici Pascal Bonitzer eGérard Wajcman.
Ma l'iniziativa è stata della regista Brigitte Jaques, l'allieva di Antoine Vitez che a suo tempo concepì «Elvire Jouvet quarante», il testo tratto dalle lezioni di Louis Jouvet che Giorgio Strehler coprodusse in Francia e successivamente montò per il Piccolo Teatro a Milano.
La stessa Jaques ha diretto L'impostura a Parigi, e con felice iniziativa l'Istituto del dramma popolare l'ha invitata a riprodurre quello spettacolo con attori italiani in occasione dell'Annuale Festa del teatro di S. Miniato, giunta alla 43a edizione: operazione, diciamolo subito, ottimamente riuscita, anche se ne ha sofferto l'impianto scenografico originale di Emmanuel Beduzzis, che nella sua idea fondamentale — un fondale con un cielo pieno di nuvole — doveva avere un altro senso in un teatro non, come questo, all'aperto.
Proviamo a riassumere in breve la complessa trama del lavoro, due tempi per un totale di due ore e mezzo che sono a loro volta divisi in quattro «notturni».
All'inizio l'abate Cénabre (Roberto Herlitzka), teologo rinomato, autore di vite di santi e uomo dall'intelletto brillante, confonde e scaccia con gusto quasi feroce un suo pupillo spirituale, il mediocre ma non malintenzionato giornalista Pernichon, interpretato da Franco Castellano.
Dopodiché convoca urgentemente il suo vecchio amico e maestro, l'abate Chevance (Antonio Pierfederici), vecchio prete ora in disgrazia presso le autorità, che gli annuncia di punto in bianco di avere perso la fede; Chevance si rifiuta di scendere sul piano dialettico con lui, e si allontana impietosito e un po' inorridito. Segue un lungo episodio al centro del quale c'è il giornalista Pernichon, che troviamo in un salotto di persone potenti, dalle quali apprende di essere stato cinicamente sacrificato, nelle sue ambizioni di carriera, alle manovre di uno di costoro.
Pernichon tenta invano di far valere le sue ragioni, passando dall'uno all'altro di questi personaggi e trovando tutti pavidi o corrotti; e si uccide.
Poi c'è un monologo di Cénabre il quale cerca di ricostruire le basi della propria fede perduta, e pensa all'orrore di quella che chiama sporcizia; avvicinato da un barbone dallo spirito trasgressore (Mario Maranzana), si confronta con lui.
Si termina con la morte del vecchio Chevance e con la decisione di Cénabre di restare nella Chiesa, ereditando fra l'altro la guida della giovane Chantal, anima bella già pecorella di Chevance.
Certe cosiddette imposture, implica l'autore, contengono più forze e più nascosto eroismo di molte cosiddette buone azioni.
Attraverso una serie di dibattiti intellettuali la commedia si pone insomma domande sulla natura della missione, non soltanto religiosa, e di passaggio mostra la corruzione e la prevaricazione in atto; e abbozza i ritratti di un conformista sconfitto dal sistema che ha accettato (Pernichon), di un dropout (il barbone), di una creatura superiore (Chantal).
Dialoghi e tirate sono eloquenti, grazie anche alla riduzione di Gigi Lunari, che forse abbonda un po' troppo di calchi dal francese («mon pauvre ami»); ma non basterebbero a tenere avvinta l'attenzione, specie in uno spiazzo dominato da un ristorante che almeno l'altra sera appariva chiassoso, se non fosse per la prestazione di un gruppo di attori davvero eccellenti, con l'intelligente, intenso Roberto Herlitzka in testa.
Gustoso anche se un po' insistito il cameo di Maranzana, e a posto gli altri, che erano Mario Ventura, Fernando Caiati, Sergio Fiorentini, Piero Caretto, Carlo De Meio, Augusta Gori, Eliana Lupo.
La loro fatica si limiterà ai pochi giorni di replica a San Miniato, il che è uno dei non pochi assurdi della nostra vita teatrale.
MASOLINO D'AMICO, La Stampa, 21 luglio 1989




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