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Sipario - La recensione di Mauro Martinelli
 

IL TEATRO IN FESTA
La festa del teatro di San Miniato è forse la principale esperienza di teatro, in Italia, che si sia avventurata nel delicato tema del sacro. Lo fa dalla sua fondazione, avvenuta nel 1947, e con un approccio critico, a tutto tondo, non apodittico né quaresimale. Lo fa con la forza delle idee, e con il gusto della tradizione. Lo fa rinnovandosi ed adeguando la propria visione alle esigenze del presente, storico, artistico e mediatico.
Cosi l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato si è trasformato da associazione in fondazione, ha aperto un proprio sito internet, ha ampliato le proprie iniziative sia attraverso nuove produzioni (quest'anno, oltre allo spettacolo principale, ne è stato prodotto anche un secondo), sia promuovendo conferenze e incontri di studio.
Chi lo segue da tanti anni con la fedeltà che si deve agli affetti più autentici ha notato come il racconto si sia attualizzato e la scelta dei testi da mettere in scena sia diventata il motore principale di questo sviluppo. È un teatro dello spirito nuovo, che si sta svincolando dai gravami storici della tradizione cattolica di crociate e agnizioni, per approcciare il mondo contemporaneo con modalità più dirette. Senza tuttavia svendere la propria anima all'incultura della ipercomunicazione - rumore di fondo in cui spesso le cose appaiono come fastidio privo di identità - né dimenticare che i percorsi dell'anima possono avvenire anche senza il tramite di simboli religiosi.
Il dilemma del prigioniero (The prisoner's dilemma, di David Edgar, ottimamente tradotto da Sara Soncini), andato in scena quest'anno alla fine del mese di luglio, ci porta subito alla fine del Novecento (più esattamente nel 1989, data-simbolo per la caduta del muro di Berlino), nell'aula di un'università americana dove si sta simulando - attraverso il role playing tra studenti - una mediazione internazionale. In gioco gli interessi distinti di ribelli e governativi, mediati dall'ONU e da forti interessi economici, in una sorta di prologo tra gli stessi protagonisti che, qualche anno dopo, siederanno non più attorno alla stessa scrivania di un'aula accademica, ma sui lati opposti di tavoli internazionali, dove il gioco sarà diventato la realtà ed i morti ammazzati non un dato astratto ma carne e sangue da gettare sul tappeto del conflitto. Anche lo spettatore che non ha letto la bibbia del mestiere ("L'arte del negoziato" di Roger Fisher e William Ury, 1981) resta affascinato, e qualche volta confuso, dal continuo ribaltamento di prospettiva, da ciò che una parte "dice" e l'altra parte "sente", dalla differenza spesso impercettibile tra ciò che le parti espongono ufficialmente, e ciò che invece vogliono nella realtà. Gli incontri tra i rappresentanti governativi dell'ex repubblica sovietica della Caucasia ed i rivoluzionari dell'enclave islamica della Drozdania iniziano nel 1997 per proseguire su vari tavoli: in Finlandia dove, a meno di un risultato positivo, tutti negheranno di essersi incontrati; poi a Ginevra, dove per un piccolo incidente salterà all'ultimo momento la firma del trattato preparato in Finlandia; ed infine in acque internazionali, su una portaerei americana, per la conclusione definitiva della vicenda, quando il progetto di uno stato multietnico cede alla più semplice divisione interna, premessa di una ineluttabile pulizia etnica. Tra una sessione e l'altra di incontri, la scena si sposta sui teatri di guerra, ora evocati su un grande schermo di fronte alla platea, ora sui lati della stessa, in cima a container utilizzati come praticabili, ad attestare anche fisicamente odio e intolleranza sulle teste di chi è ignaro spettatore (perché non conosce ciò che accade veramente nelle guerre più lontane, o perché lo conosce solo attraverso le parole tranquillizzanti delle grancasse mediatiche). E la guerra se ne infischia dei cavilli linguistici delle mediazioni, la guerra spazza le persone senza un vero motivo, per dare un esempio, per educare il nemico all'odio ed alla disperazione.
Il testo di Edgar, che ha debuttato nel 2001 a Stratford-on-Avon, racconta in modo universale le vie senza uscita della Cecenia e dei Paesi Baschi, dell'Irlanda del nord e del Kosovo, di tutta la violenza che abita il mondo a cavallo di questi due secoli. Teatro di parole, testo e sottotesto, ironia e disgregazione, in cui si cita Woody Allen mentre si spara in testa ad un volontario della Croce Rossa, in cui si fa riferimento alla corsa in auto di James Dean ed alle tre "balle spaziali" della civiltà occidentale ("Le abbiamo già spedito l'assegno"; "mia moglie non mi capisce"; "mi manda l'ONU e sono qui per aiutarvi"), contrapposte a quelle dell'ex cortina di ferro ("Al lunedì tutti i negozi vendono arance"; "al venerdì sono completate tutte le quote"; "Uscite dalle cantine, non c'è nulla da temere!").
La compagnia - ben equipaggiata di ritmo e reattiva alle esigenze del testo, siano esse equilibrismi linguistici di un gramelot balcanico, o sovrapposizioni di dialogo - appare ben impostata dalla regia di Maurizio Panici, ben focalizzata ad approfondire tutti i piani di lettura offerti dal testo. Tra gli attori, tutti al loro meglio, una menzione particolare al superlativo professor Shubkin di Bruno Armando, intellettuale di regime prestato alla guerra, che attraversa seguendo la traccia di un'ironia che solo a tratti scalfisce un dolore profondo.
MAURO MARTINELLI, Sipario, ottobre 2004




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