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La recensione di Silvio D'Amico
 

Un'inebriante regia crea un intero spettacolo
Per la quarta volta lo spettacolo annuale dell'Istituto del Dramma Popolare è stato felicemente varato iersera, nella Piazza del Duomo a San Miniato. L'Istituto ha voluto celebrare un assertore dei suoi stessi ideali, per un'arte cristiana e popolare nel senso più augusto dei due vocaboli: e cioè quel Jacques Copeau che, mancato ai vivi pochi mesi addietro, una lapide nel secondo Chiostro di Santa Croce a Firenze definisce a ragione maestro della scena moderna. Della scena, non delle lettere; Copeau, sebbene anche scrittore e critico, non è stato insigne come autore ma come regista. E già in un altro suo lavoro intitolato L'Illusion, rappresentato in francese da lui stesso e dai suoi allievi in Italia nel 1929, egli si era rifatto alla Celestina di De Rojas e alla Illusion comique di Corneille, per trame semplicemente alcuni pretesti di virtuosità scenica e registica; in parole povere, per una sorta di esercitazione tecnica. A un più profondo, intimo significato, mira senza dubbio il suo dramma postumo intitolato Il poverello, che l'Istituto del Dramma Popolare ha proposto con la regìa di Orazio Costa.
Qui il testo non si esaurisce certamente in un giuoco tecnico. L'eroe prescelto da Copeau, che fu pure definito «un francescano del teatro», è San Francesco d'Assisi. E probabilmente nell'allineare, in un seguito di scene, alcune vicende fra le più salienti dello sposo di Madonna Povertà, e del conflitto fra il suo assoluto ideale e la fatalità del compromesso col reale, lo scrittore ha pudicamente confessato anche qualcosa che riguardava intimamente lui stesso, assertore dell'arte pura sopra una scena contaminata, e in qualche modo tradito anche lui dal compromesso con la realtà. Ma è anche vero che questo dramma Copeau, meglio che architettarlo nelle forme tradizionali da venticinque secoli sulla scena, lo ha vagamente enunciato, in una serie di confessioni e di dialoghi intramezzati da commenti lirici e addirittura liturgici, offrendo il tutto sopra un palco nudo, e facendo appello alle integrazioni d'una regìa a un tempo semplicissima e scaltrissima: capace cioè di trasfigurare in persuasione e commozione suggerimenti d'una natura elementare, talvolta pressoché infantile.
Chi conobbe, tanti anni fa, le schematiche costruzioni sceniche con cui lo stesso Copeau proponeva, al pubblico del suo ascetico Vieux-Colombier, gl'incontri e scontri fra gli eroi farseschi di Molière, o fiabeschi delle commedie di Shakespeare; chi più tardi conobbe la nudità dei vuoti palcoscenici in cui il suo prediletto Saint-Denis ostentava vicende di tragico terrore, movendo dalla semplicità, o addirittura dall'assenza, dei mezzi scenici, per trame gli effetti più impensati; chi abbia appreso anche di seconda mano, dai discepoli di Copeau, quale fosse il clima di fervore e di innamorata, intima dedizione, con cui i suoi attori si componevano intorno al capo nella dura e gioiosa preparazione d'uno spettacolo interamente affidato a uno stile; chi sia consapevole di tutto ciò non ha potuto a meno iersera di riconoscere — come ha fatto, anche pubblicamente, la figlia discepola dello stesso Copeau, Marie Hélène Dasté, presente alla preparazione di questo spettacolo inscenato dal Costa — un'ammirabile fedeltà, spesso anche letterale, e sempre spirituale, all'ideale del  Maestro.
Erigendo nella vasta piazza, sullo sfondo della notte nera, un ciclopico palco a piani sovrapposti e comunicanti per grandi scalee, dove in basso si svolgono, senza sussidio d'accessori di nessun genere, le vicende terrene, e dall'alto appaiono e calano, con una celeste agevolezza, gli angeli del Signore, Orazio Costa v'ha fatto agire il mondo della storia e della leggenda francescana: ispirandovi e mantenendovi un fresco candore, una grazia superumana anche nei contrasti dai più ingenui ai più terribili, fra V incanto di melodie primitive e di solenni armonie liturgiche, sino alla finale catarsi, del Transito di Francesco al Dilà.
Una rappresentazione di questo genere non ha riscontro nelle consuetudini del tempo nostro. Questa è l'opera d'un poeta poetae additus; d'uno che, sviluppando un testo quasi sempre scarno per voluta povertà, quasi mai propriamente drammatico, ha compiuto una vera e propria attività creatrice. Questa è regia. Al confronto di troppi altri spettacoli, la cui attrattiva dovrebbe consistere nell'eccezionale raduno di quelle che si sogliono definire assortite personalità di attori, ciascuno dei quali poi recita a suo modo e per conto suo, qui si è raggiunto, con perfetta unità, uno stile: donde la sua suprema armonia. Scene come quelle, in genere, o, in ispecie, della predica di Francesco agli uccelli, degli idillici colloqui tra fraticelli, dei conflitti fra il Santo con l'ossesso o con Satana, e infine quel vasto e mirabile poema sinfonico che è la rappresentazione della sua morte, non possono essere giudicate alla stregua dei nostri consueti commenti di cronisti. Ogni riserva davanti al testo — che, ripetiamo, non è se non un pretesto — cade dinanzi all'eccellenza della raggiunta espressione scenica: in qualche tratto più pallida, assai più sovente colorita e convincente e inebriante, sempre degna degli applausi che l'hanno accompagnata a scena aperta, e delle interminabili acclamazioni che l'hanno conclusa, al regista e agli attori.
Fra questi, se ne avessimo il tempo, dovremmo elogiare grandemente almeno Antonio Pierfederici, che sostenne con una costante bravura, e in più tratti con mirabile genialità, la tremenda parte di Francesco d'Assisi. E non ci sarà bisogno di aggiungere le lodi all'arte di Evi Maltagliati, che figurava sua madre; e alla categorica perspicuità di Manlio Busoni, che impersonava suo padre. Nel coro dei fraticelli, bisognerebbe nominare tutti: il Mondolfo, lo Sbragia, il Panelli, il Manfredi, il Giacobini; fra gli altri personaggi, il Galavotti, il Meloni, il Bosic; fra le donne, la Da Venezia, la Di Meo, e Rossella Falk nel paradisiaco fulgore dell'Arcangelo San Michele.
Il maestro Piombini diresse con agevole sicurezza sia il coro invisibile, affidato ai cantori della SS. Annunziata di Firenze, sia quello argentino delle voci angeliche. Belli i costumi curati da Valeria Costa, preziosa la collaborazione scenografica del Santonocito. In conclusione spettacolo d'altissima classe, che ha riaffermato la valentìa d'un eccezionale regista, e fa onore all'Istituto che lo ha tenacemente promosso e realizzato.
Silvio D'Amico, R.A.I., Sabato 2 Settembre 1950




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