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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

La recensione

Storia di ordinali miracoli

«Novità per l'Italia», dice la locandina. Ed è appena una piccola forzatura. Il capanno degli attrezzi giunse infatti con tempestività dalle nostre parti, all'inizio del 1958, ma limitatamente a Milano, e per poche repliche. Il regista dell'attuale, impegnativa riproposta, Sandro Bolchi, ne firmò in seguito, nel 1960, una versione televisiva, più volte diffusa, ma da lui stesso ritenuta oggi inadeguata.
Eppure, a trent'anni di distanza, Il capanno degli attrezzi regge bene, con la sua struttura di «giallo spirituale», la sua tecnica ibseniana di approccio a una terribile verità occulta, il suo disegno talora sommario ma efficace dei personaggi. Quanto al «messaggio», si può respingerlo al mittente, con doverosa cortesia, ma se ne resta comunque intrigati.
In tale suo dramma, l'autore britannico e cattolico ipotizza dunque, nel più moderno e borghese dei contesti, un miracolo, né più né meno, sebbene lasci poi aperto uno spiraglio a spiegazioni «naturali» del caso, che vide tornare alla vita il quattordicenne James Callifer, impiccatosi a causa dei disperati pensieri indotti nel suo animo adolescente dalla filosofia positivistico-nichilistica del padre.
James ha cancellato dalla memoria quel fatto atroce, ma ricavandone una nevrosi che le cure del dottor Kreuzer, psicanalista, non riescono a vincere. Trascorsi tre decenni, e in occasione della morte del genitore, James («un giornalista di mezza età», si definisce) si ritrova con la madre, il fratello John, la giovanissima nipote Anna (è stata costei a chiamarlo, all'insaputa degli altri), l'ex moglie Sara, e un amico di casa. Ed ecco mettersi in moto il processo di disvelamento dell'accaduto, con tutte le sue implicazioni: inclusa la forte scossa subita dalle troppo supponenti certezze di Callifer senior, da allora vissuto, e adesso spentosi, fra dubbi tormentosi.
Ma il nodo della vicenda risulta più clamoroso: fu lo zio prete di James, il pio William, a impetrare e ottenere il prodigio (se prodigio si ebbe), offrendo in cambio a Dio quanto aveva di più caro, cioè la propria stessa fede. Di conseguenza, William è diventato uno straccio di sacerdote, un mestierante della religione, incline al bere, inviso ai fedeli e poco gradito ai superiori. Chi conosca il Graham Greene romanziere, comprenderà bene che quella di William è la figura più spiccata, e che la cornice di squallore in cui si colloca le dà pieno risalto, con tocchi magistrali. Un'immagine di inquietudine che resiste al di là del finale edificante, dove a ogni modo amore divino e amore umano sembrano saldarsi (tema anch'esso tipico dello scrittore) nel rinnovato sodalizio affettivo e carnale di James e di Sara.
Lo spettacolo è felicemente situato «in esterni», sulla piazza del Duomo: tra alberi veri ed erba rada, sono sparsi sedie, poltrone, divani, tavolini di vimini, simulando il giardino che molto peso, realistico e simbolico, ha nella storia. Sulla destra, si profila con discrezione la villa dei Callifer. Gli «interni» vengono accennati, se occorre, da elementi disposti a vista. La scelta degli interpreti pare appropriata (cosa non frequente, nel teatro estivo, ma ormai nemmeno in quello invernale), e non solo sotto il riguardo anagrafico, che pure qui conta. In netta, corposa evidenza, Mario Maranzana, nella degradata veste talare di William, che indossa con una sorta di gaglioffa dignità. Qualche segno di smarrimento in più, di fronte all'enormità della sua esperienza, vorremmo cogliere nel James di Carlo Simoni. Regina Bianchi è, con autorevolezza, la madre. Margherita Guzzinati, con grazia (e con qualche «e» stretta di troppo), dà presenza e voce a Sara. Spigliata, ma bamboleggia un tantino, Joyce Leoni come Anna. Rina Franchetti svolge benissimo il racconto della vedova del giardiniere (il quale fu testimone oculare dell'evento). Corretti gli altri, da Enrico Baroni (John) a Micaela Giustini (la «Perpetua» di turno), a Sergio Fiorentini (il dottor Kreuzer, e badate al nome tedesco, c'è di mezzo la Croce). Assai lieto il successo.

AGGEO SAVIOLI, L'Unità , Roma, 18 luglio 1987




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