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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

Gesù bambino in Galles
All'Istituto del dramma popolare, promotore della Festa del Teatro, giunta al numero 42, si attribuisce da sempre una notevole apertura di idee: la scelta dei testi da rappresentare qui non si limita, infatti, all'ambito degli scrittori che in qualche modo si riconoscano nella Chiesa di Roma; unica condizione è che in essi si agiti un tema o problema religioso, o spirituale, o comunque altamente morale.
Tanto più lasciano delusi l'opera e l'allestimento di questo 1988. Siamo ancora, come l'estate scorsa, in terra d'oltre Manica: al Capanno degli attrezzi dell'inglese e cattolico Graham Greene, ecco far seguito Il vento del cielo di Emlyn Williams (1905-1987), nativo del Galles e anglicano.
Si tratta, stavolta, d'un drammaturgo e attore di fama in quelle contrade, ma presso di noi quasi ignoto, benché abbiamo vago ricordo d'un film dei primi Anni Sessanta, ricavato da uno dei suoi titoli teatrali del periodo prebellico (e già trasferito sullo schermo all'epoca). La notte deve cadere, riconducibile al genere del «giallo psicologico». Una procedura da racconto poliziesco si coglie anche, almeno all'inizio, nel Vento del cielo; la cui trama si colloca in un villaggio gallese, Blestin, nel 1856, a breve distanza dalla guerra di Crimea (1854-55) e quando ancora se ne avvertono le brucianti conseguenze, nei lutti recenti provocati e in un'improvvisa epidemia di colera, morbo importato con certezza di laggiù. Ma Blestin è stato pure afflitto, qualche tempo prima, da una calamità naturale, che ha infierito sui più giovani. Segnata da tante disgrazie, la gente del posto è piombata nell'apatia, nella disperazione, nella mancanza di fede. Bambini non ne nascono, ormai, e non esiste più nemmeno un luogo di culto.
Adesso, però, corre la voce di prodigi legati alla figuretta d'un fanciullo, Gwyn, figlio d'una umile domestica, il quale sarebbe tra l'altro capace di suscitare, dal nulla, arcane melodie. Una pittoresca coppia, il padrone d'un circo, Ellis, e il suo braccio destro Pitter (un signorotto decaduto, ma dotato di risorse intellettuali), s'interessa alla cosa, vedendovi - soprattutto Ellis che, mèmore di un'infanzia misera, spasima solo per il denaro - occasioni di profitto.
Ma Gwyn non è il fenomeno da baraccone, da esibire e da sfruttare, che i due supponevano: in lui sembrano risiedere, piuttosto, virtù davvero miracolose; al punto che i non pochi colerosi di Blestin guariscono, e uno anzi, un militare dato già per morto, resuscita addirittura. A spegnersi sarà invece il ragazzo, quasi avesse assunto su di sé tutti i mali del piccolo borgo, emblema evidente del mondo intero. Ma, sedotti dal suo esempio, i personaggi più coinvolti nel caso, e in testa a loro il già scettico e avido Ellis, si faranno propagatori della nuova buona novella. Se ne rimane appartato Pitter, registratore e «razionalizzatore» dell'accaduto: quasi che, per suo mezzo, il commediografo volesse smorzare il tono troppo edificante via via acquisito dalla vicenda.
Inscenato la prima volta nel 1945 (lo stesso autore vi appariva nel ruolo di Ellis), il lavoro echeggia senza dubbio, sullo sfondo d'un conflitto lontano, altri eventi bellici, vicinissimi (ma la Crimea resta un capitolo illuminante della storia britannica, e si pensi alla satira feroce esercitatavi sopra da Tony Richardson nella sua maggiore impresa cinematografica, I Seicento di Balaklava). Intendiamo dire che la riflessione cristiana di Emlyn Williams, nel Vento del cielo, traeva alimento dall'esperienza presente di un'umanità provata all'estremo. La parabola che ne scaturiva ci risulta tuttavia, oggi, fiacca e pedissequa, nell'insieme, difettando proprio del suo elemento essenziale, il mistero.
Nella versione italiana, si perde inoltre il doppio registro linguistico (gallese e inglese), che doveva pur avere un suo significato. E lo spettacolo, anche se servito con leale impegno dagli attori (fanno spicco la Greco, la Cardile, Reggiani, Foà) respira un'aria malinconica di vecchio sceneggiato televisivo di ambiente anglosassone.

AGGEO SAVIOLI, L'Unità 16 luglio 1988




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