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Avvenire - La recensione di Luca Doninelli
 

I «duellanti» di San Miniato
Le spade e le ferite di Elena Bono è l'eccellente testo scelto dall'Istituto del Dramma Popolare per la cinquantaquattresima edizione della Festa del Teatro di San Miniato, il bellissimo borgo che sovrasta la piana empolese.
Qui a San Miniato il tempo sembra essere trascorso non in modo più lieve, ma con una sorta di verginalità in più. Come se i diversi maestri che si
sono succeduti nelle regie e nelle interpretazioni qui, sulla piazza del Duomo si fossero arrestati d'un passo di fronte a questa originalità, a questo senso di una tradizione lunga e tenace. Gli stessi registi, qui a San Miniato, realizzano qualcosa di diverso dal loro solito, perché qui il teatro è una sorta di incontro, di congiunzione, di coniugazione tra lo stile del maestro e quello che appartiene al genius loci: un "genius" fatto, una volta tanto, più d'amore e di passione che d'altri, più remunerativi sentimenti.
Ugo Gregoretti, coadiuvato da una troupe di attori tra cui Massimo Foschi ed Eros Pagni, è stato chiamato a trasformare in visione la tormentata, complessa e insieme semplicissima vicenda raccontata da Elena Bono. Le spade e le ferite è la storia dei difficili rapporti tra Chiesa e potere politico, incarnati da papa Innocenzo IV Fieschi e da Federico II di Svevia. Dove le "ferite" non sono però solo quelle che gli Svevi infersero in abbondanza, ma anche quelle da cui sgorga un altro sangue: quello dell'eredità, quello del compito che il nostro passaggio sulla Terra è chiamato a realizzare.
Federico II, battezzato ma sospettato d'eresia, rappresenta la protervia di tutti i poteri, che non accettano di tenere in mano una sola delle due spade, e considerano fuorilegge la pretesa della Chiesa di stabilire autonomamente di se stessa e della propria missione. Di contro, papa Fieschi appartiene alla orgogliosa gente di Liguria e brandisce con vigore la bandiera della libertas ecclesiae, anche se l'ascesa al soglio di Pietro lo convince - forse più che il nemico in se stesso - della precarietà del mare in cui la nave della santa Chiesa si trova a navigare. Il potere è forte e crudele, e la battaglia è continua: mai illudersi di averla vinta una volta per tutte - e mai illudersi che un potere "buono", "favorevole" renda alla Chiesa un servizio migliore: giacché il solo servizio è quello di riconoscere e garantire la sua libertà.
Ugo Gregoretti ha diviso, con acribìa marxista ma anche con intelligenza e chiarezza d'idee, il palcoscenico in una zona "alta" - dove si consuma il dramma dei potenti - e in una "bassa" - dove agisce il popolo, con la sua paura e il suo coraggio sempre frammisti e indivisibili. Forse, se non avesse tagliato l'ultima scena (con il disaappunto garbatissimo della Bono), questa separazione si sarebbe mantenuta più difficilmente.
Con serena mestizia manzoniana, i due nemici accedono infine all'ultima soglia, quella della morte, dove l'uno e l'altro entrano da cristiani, riconoscendo cioè quella che Péguy chiamava «la miseria cristiana», che consiste soprattutto nel riconoscere e accettare la parte che a noi tocca nel Gran Teatro del mondo.
La pièce, scritta secondo uno spettacolare - anche se talvolta un po' manierato - plurilinguismo (latino, francese, tedesco, siculo, genovese e altri), nasconde la sua attualità con discrezione.
Davvero ottima l'interpretazione di Foschi, un Federico lacerato tra forza estrema ed estrema debolezza. Ottimo anche Eros Pagni, che disegna un Innocenzo IV atrabiliare, di tempra dura ma con guizzi d'humour.
Uno spettacolo divertente, anche: sia per la forza pirotecnica della lingua, sia per l'ordine lucidissimo in cui questa forza si cala.
LUCA DONINELLI, Avvenire, 22 luglio 2000




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