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Il Tempo - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

Fracci-Gazzolo, occasione sprecata
Come buona parte della città e delle cittadine toscane, San Miniato ha avuto in dono da Dio e dalla Natura la «forma» di un paesaggio sobrio e armonioso, dalla Storia e dalla Memoria eventi e personaggi (qui risiedeva il vicariato imperiale di Federico II; di questi luoghi è originaria la famiglia di Napoleone), dall'Arte tesori medioevali e rinascimentali, chiese, palazzi, stradine oscure che d'un tratto si affacciano sul verde e sull'azzurro. Città antica e colta, San Miniato; e la ricorda con affetto Giosuè Carducci, rievocando gli anni in cui era un giovane professore e le calde estati sanminiatesi erano piene di cicale che «strillavano». Tra le tradizioni di più recente conio (se cosi si può dire perché è già passato più di mezzo secolo secolo dal «battesimo») c'è quella dell'Istituto del Dramma Popolare, nato nel '47, quando le ferite della guerra e della guerra civile erano aperte (e per quanto tempo lo sarebbero restate!), e si sentiva urgente, immediato il bisogno da parte degli intellettuali di più elevate sensibilità culturali e più attenti ai problemi dello spirito, di riflettere su inquietudini e contraddizioni umane, sul dolore, sull'odio, sul male, sulla furia degli istinti e sull'insopprimibile anelito verso un Dio spesso lontano, incomprensibile, inaccessibile.
Ci voleva un teatro che, ogni anno, sulla piazza della Cattedrale, nelle notti stellate di luglio, parlasse del mistero dell'Uomo e del Sacro, del «senso» della Vita e della Morte. Senza didascalie moraleggianti, senza propositi edificanti, senza sfoggio d'eloquenza: un teatro che rovistasse nell'animo e facesse pensare; che scuotesse e provocasse. E così, sul palcoscenico della Piazza, si sono susseguiti autori come Eliot, Bernanos, Mann, Strindberg, Pomilio, Silone, Fabbri, Luzi, Malaparte; e grandi professionisti della regia come Enriquez, Squarzina, Scaccia, Sbragia, Zanussi, Costa, Strehler, Jacobbi. Intendiamoci: non sempre un nome è una garanzia, non sempre un testo, portato sul palcoscenico, «parla». Accade al Giobbe di Karol Woityla nell'85; altre volte, invece, le migliori premesse non sono state premiate dai risultati.
Il Cavaliere di ventura di Roberto Cavosi, presentato quest'anno con la regia di Beppe Menegatti, sembra a noi, ad esempio, un'«occasione sprecata». Nel senso che il testo — una sorta di «cammino di formazione» del cavaliere Fortebraccio che incrocia il suo destino di «cercatore» con quello di Ofelia, condannata al disamore e alla morte dal Principe del Dubbio Amleto — è suggestivo; sa attraversare con esiti felici generi teatrali diversi come la commedia, il dramma, la tragedia, la pantomima; è in grado di giocare su registri linguistici opposti come il «sermo cotidianus» e il linguaggio colto ed elevato. Il fatto e che se si propone, come in questo caso, qualcosa che sfida i canoni, gli attori più che mai debbono «ritagliarsi» sui personaggi, impadronirsi della loro «cifra», «viverli», verrebbe la voglia di dire.
E qui non ci siamo. Perché corpo e sensibilità interpretativa di Virginio Gazzolo non riescono a modellarsi su quelli del Cavaliere dell'azione, della Riflessione Tormentata, della Contemplazione Ambigua: il suo Fortebraccio ha gesti e timbri vocali non sai se di proposito o involontariamente caricaturali; e questa mancata «misura» rende «sfasato» l'incontro con un'Ofelia cui Carla Fracci da accenti lirici intensi ma un po' stereotipati. Meglio la marcata, oscena sensualità del Diavolo, interpretato da un sempre più maturo Maximilian Nisi e la grassa, indisponente petulanza della Morte i cui panni vengono indossati, con vecchio mestiere, da Angela Cardile.
Mario Bernardi Guardi, Il Tempo 25 luglio 1999




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