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Il Tempo - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

Lo scandalo della Verità
Francesco d'Assisi: un santo che «scandalizza». Ovviamente nel senso dello scandalo cristiano, che è urgenza di verità da testimoniare nell'imitazione di Gesù e del suo esemplare sacrificio. E questo vuoi dire innanzitutto — è Dante a illuminarci di questa luce nel canto undicesimo del Paradiso — scegliere il matrimonio con Madonna Povertà, che fu sposa di Cristo e che solo nei santi, appunto come Francesco, può trovare corteggiatori e pretendenti. Le nozze si celebrano lontano dal mondo che, anche se ha ricevuto la buona novella, non comprende, preso com'è nei traffici  della  esperienza quotidiana; ma quel che si genera dall'incontro d'amore, il frutto spirituale che ne deriva, deve poi riverberarsi sul mondo, farsi predicazione e missione, trasformarsi in elemento di nuova vita per gli uomini tutti, e in special modo per  quelli che non sono abituati ad ascoltare, per i cuori duri, per le menti ottuse. E se il potere, anche quello ecclesiale, teme nello slancio generoso, gioioso e «folle» del francescanesimo, il pericolo di una «eversione» che metta in crisi la cattedra di Pietro, ebbene la battaglia dei «milites Christi» dovrà essere ancor più appassionata, ma anche pacificamente disposta a tribolazioni e a mortificazioni per ogni «cavaliere» che abbia indossato il sacco, stretto alla vita dal cordone. La parola di Dio è una falda acquifera che scorre da semnre e per sempre, ma i «tempi» della storia non sono quelli della santità.
Ecco, L'uomo che vide, portato in scena dall'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, in occasione della 52a Festa del Teatro, ci sembra proporre questo messaggio, aspro e dolce al tempo stesso. Non è consolante, infatti, perché il riscatto dell'uomo è affidato, sempre per dirla con Dante, alla «dura intenzione» di un «giullare di Dio», che si è spogliato di tutte le sue ricchezze, umiliandosi fino alla abiezione; eppure è un messaggio di speranza perché Francesco viene comunque a ricordarci che Dio si è incarnato nell'uomo e che da allora l'uomo può scegliere, può essere salvo, addirittura può essere santo nella comunione fraterna con tutte le creature e con il dolore che è fratello al pari del fuoco e con la morte che è sorella al pari dell'acqua. Non è facile dire queste cose, non è facile trasformarle in «spettacolo», sia pure nell'ambito di un «teatro dello spirito» come quello sanminiatese, in cui, come scrive il presidente del «Dramma» don Luciano Marrucci, «c'è un interlocutore in più (...); una presenza che sta al di sopra e al di fuori e che si manifesta come risonanza misteriosa nella corda profonda dell'anima». Non è facile, dicevamo, anche se la vita di Francesco è in qualche modo «spettacolare» e offre non poche occasioni per essere tradotta in immagini di forte capacità suggestiva: si pensi a come il cinema ha cercato di esplorare il paesaggio intcriore dell'Assisate con le opere di Roberto Rossellini, Franco Zeffirelli, Liliana Cavani. Ebbene, Krystof Zanussi, che già nel 1985 era stato un valido supervisore alla regia (di Aleksandra Kurczab) per il Giobbe di Karol Wojtyla, si è «adattato» alla «provocazione» che già era la «cifra» del romanzo Francois d'Assis di Joseph Delteil, uno scrittore francese partito dal surrealismo e approdato a tematiche di riflessione spirituale (suo è anche il romanzo Jeanne d'Arc da cui il regista Dreyer trasse un celebre film). Forte della collaborazione del drammaturgo Piero Ferrero, nel rispetto delle scansioni narrative del libro di Delteil, Zanussi ha «raccontato» Francesco attraverso sette «quadri»: dal primo — «La Voce», che rievoca episodi della vita quotidiana di Francesco prima della vocazione — all'ultimo — «L'addio», con il distacco di Francesco, segnato dalle stigmate, dai suoi discepoli, allorché Sora Nostra Morte Corporale lo chiama a sé e alla luce del Paradiso —, abbiamo dunque un «percorso di significati». Non didascalico — a seguire Francesco nelle stazioni della sua esistenza è un uomo come noi, una specie di «cronista» che affida una grande storia a un dimesso «sermo cotidianus» — ma problematicamente sofferto. Si concede qualcosa a provocazioni «datate» con biciclette, motociclette e camioncini, portati sulla scena e con i canti gregoriani e le melodie trobadoriche mescolati agli «spiritual» e alle modalità in ritmo «reggae»? Forse. E forse c'è un po' troppo schematismo nello «scontro» tra la Chiesa e il «movimentismo francescano», seguito poi da un «incontro» all'insegna della «normalizzazione», che finisce con l'emarginare il Santo d'Assisi, reclamato, invece, in morte, come tesoro di tutta la Cristianità. Qui ci voleva un'intelligenza storica che sapesse meglio cogliere i chiaroscuri del conflitto (ma ricordiamo che Francesco non venne mai meno ali'obbedienza), le lacerazioni, i dilemmi. Comunque,- al di là di  questi «residui» di cultura più «politicamente corretta» che «contestativa», lo spettacolo non manca di forza. Gli interpreti sono tutti «coinvolti»: di particolare efficacia, comunque, Carlo Simoni che dà all'«uomo che vide San Francesco» la giusta misura, tra adesione dello spirito e moderno disincanto e Maximilian Nisi che vive il suo Francesco con gioia furiosa, partecipando vitalmente a quella giovanile ebbrezza di santità. Le musiche, di Andrea Niccolini, cercano sonorità singolari, tra mandole e tamburi, violini e chitarre elettriche. Sullo sfondo la storica Piazza del Duomo, più bella che mai in queste notti d'estate.
MARIO BERNARDI GUARDI, Il Tempo, 19 luglio 1998




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