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Paese Sera - La recensione di Gabriele Rizza
 

La recensione

La grazia perduta nel labirinto del dubbio

Diciamo subito che a proporre in piena estate Geroges Bernanos ci vuole un certo coraggio. A San Miniato, storica città dell'idea cattolica del teatro (dal 1947 anno di partenza dell'Istituto del Dramma popolare, ininterrottamente fino ad oggi, 43a edizione) questo coraggio non manca, sempre sostenuto dalla certezza e dalla fede nel messaggio, nei valori di cui il teatro deve farsi portatore.
Tanto più oggi, viene spontaneo da dire. Così il Bernanos dell'Impostura si è piazzato lì sulla romanica piazza del Duomo, incuneato fra la chiesa e il Palazzo svevo, e non ci ha lasciato per più di due ore, finché la turbolenta vicenda esistenzial-religiosa dell'abate Cénabre, l'impostore appunto, non ha sciolto i suoi nodi, le sue menzogne e abiezioni. Il romanzo di Bernanos scritto nel 1927 subito dopo il più celebre e apocalittico Sotto il sole di Satana (pure rappresentato a San Miniato nel 1965 nella versione di Diego Fabbri) è stato ridotto e adattato per le scene da Pascal Bonitzer e Gerard Wajoman. Presentato con vivo successo la scorsa primavera al parigino Théàtre de la Ville per la regia di Brigitte Jacques, la scene e i costumi di Emmanuel Peduzzi, è giunto a San Miniato nella traduzione di Luigi Lunari. Come blocchi di marmo i dialoghi di Bernanos si posano sul palcoscenico, affrontato l'argomento e lo trivellano con pirandelliano logica, dubbiosa pervicacia, titanica consequenzialità. L'aria è da pulpito, basso e profano, macchiato di brutture e falsità, dove regna la grazia della disperazione, dell'impostura e dell'ipocrisia, e dove il soffio di bontà divina, se c'è, è così debole, fioco, da risultare impercettibile. C'è in Bernanos la feroce consapevolezza, vissuta come condanna ma al tempo stesso come unica speranza, della incompiutezza umana, dell'inadeguato bagaglio fisico e intellettuale cui l'uomo si affida per aspirare alla bontà, se non alla salvezza. Nessuno, anche i così detti puri di spirito, è esente da questo ritardo incolmabile, da questo gap cristologico, che esaspera ogni tentazione.
E il prete, nel suo rigore ascetico come il giovane curato di campagna di Ambricourt o sezionato dal dubbio della fede perduta come questo abate Cénabre, personifica per Bernanos la condizione mancata, l'evidente fallimento della volontà umana nel suo sforzo di comunicare con Dio. Niente di satanico allora se può, il prete, in un groviglio di impulsi contraddittori, trasformarsi in impostore, accettare la perdizione come prova di vitalità, perpetuare l'inganno.
Diviso in quattro scene madri, quattro notturni che rimandano ad una plumbea, bluastra discesa nell'inferno della vita senza «Grazia», nel confronto tragico di uomini persi dai destini illividiti, amputato nelle coscienze più deboli dal suicidio e dalla morte (quasi la selezione naturale premiasse gli empi e i pescatori di torbido) L'impostura di San Miniato vive di crudeli risorse e grottesche raffigurazioni di benpensanti carnefici e falsi come politicanti senza scrupoli, soprattutto nei primi due quadri, nello scontro senza esclusione di colpi e nella evidenza del marcio che cola e si diffonde putrido, stagnante. Si ostina troppo nella predica e nell'oratoria, nel secondo e terzo notturno, per risultare teatrale, comunicabile al pubblico. Che alla fine ha lungamente applaudito gli intepreti, a cominciare da Roberto Herlitzka, un Cénabre convincente e teso nella diaspora della malafede, e Fernando Calati, molle e ghignante nel tratteggiare le viziose sollecitudini di un decomposto Cerou, scrittore e notabile senza onore. Completavano il cast Antonio Pierfederici, il vecchio abate Chevance, Franco Castellano, lo sballottato giornalista Pernichon, Mario Ventura, Sergio Fiorentini, Piero Caretta, Mario Maranzana e Carlo De Meio.

GABRIELE RIZZA, Paese Sera, Roma, 23 luglio 1989




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