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Il Tirreno - La recensione di Gabriele Rizza
 

La guerra degli Sbragia
Una voce fuori campo ci informa della rivoluzione in atto, delle persecuzioni contro la Chiesa, di preti che vengono giustiziati sommariamente, a meno di abiurare e, sposandosi, rinunciare alla loro missione.
Siamo in qualche paese del Sudamerica: il Messico rivoluzionario degli anni Trenta o i regimi totalitari di destra del dopoguerra, e sullo schermo potrebbero scorrere i titoli di testa: Il potere e la gloria di Graham Greene, regia di Giancarlo Sbragia, scenografie di Giovanni Polidori, costumi di Alessandro Ciammarughi, musiche di Luciano Francisci, interpreti principali lo stesso Sbragia, suo figlio Mattia Camillo Milli, Elio Veller, Pino Michienzi, Giancarlo Cortesi.
L'approccio cinematogratico di questa messinscena che ha debuttato con successo alla XLV edizione della Festa del Teatro di San Miniato, come sempre promossa dall'Istituto del Dramma Popolare non sarebbe dispiaciuto all'eclettico scrittore inglese, da poco scomparso, che col cinema ha sempre avuto rapporti e collegamenti. Lo stesso Il potere e la gloria, aveva subito una trasposizione cinematografica nel '47 firmata da John Ford, con Henry Fonda e Dolores del Rio.
Qui a San Miniato, su questa piazza, l'opera di Greene era già approdata nel '55 con la regia di Luigi Squarzina. Una sorta di omaggio che questa cittadella della cultura cattolica in Italia, con qualche ruga addosso, intende dedicarsi in vista di un progressivo quanto auspicabile rilancio. E già un segnale, quest'anno, oltre l'onorevole resa dello spettacolo, è venuto dal convegno sul «Teatro dello spirito» coordinato da Federico Doglio, che per due giorni al Centro Studi «I Cappuccini» ha visto impegnati esperti e addetti ai lavori di credo diverso.
Al centro della storia un prete, figura simbolica e coagulante (da Greene a Bernanos) del pensiero cattolico. Il prete di Greene è un peccatore, un ubriacone, un uomo in fuga dalla sua missione come dalle prove della vita, meschino e irrelevante, padre di una figlia avuta da una contadina, transfuga da se stesso.
Ma è l'unico rimasto, l'unico che può celebrare messa, se ci fosse solo un po' di vino bianco. E il vino diventa un protagonista maledetto, un tormento, un miraggio, una benedizione, un bene per il quale si può morire. Questo sangue divino, che si gioca a carte e costa decine di pesos, e la traccia che seguono i due contendenti: il religioso disorientato e confuso, sdrucito e crudelmente fatalista di Giancarlo Sbragia; e il laico tenente di polizia, angelo della morte, incorruttibile e puro, stretto nella sua divisa come nell'intransigenza della sua «fede» rivoluzionaria, reso con determinata e impermeabile dedizione del figlio Mattia.
Scontro di idee (e di generazioni) attorno a cui ruota una galleria di personaggi interlocutori, un coro di contadini, e una scena che raffigura in tempi solerti di dissolvenza cinematografica, i sei quadri della vicenda. Che si chiude sulla tragedia di un uomo inseguito da Dio e dagli uomini, liberato dalla morte; e sull'affacciarsi al proscenio di un altro «pellegrino», che ne eredita valori e sofferenze.
E' il messaggio di una Chiesa che non si arrende; di una Chiesa, che proprio nel continente sudamericano, afferma la sua presenza di interlocutore scomodo attraverso le grandi speranze della «teologia della liberazione».
Uno spettacolo d'ambiente (preti in scena e in platea) che soffre forse di un troppo didascalico confronto ideologico. Comunque, un apprezzabile monito e un apprezzabile risultato artistico, pur nei limiti di un naturalismo datato che solo la dolorosa incredulità di Sbragia padre riusciva a scalfire.
GABRIELE RIZZA, Il Tirreno, 20 luglio 1991




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