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La recensione di Odoardo Bertani
 

Il cuore dell'uomo
I greci ed Eliot sembrano aver tenuto a battesimo questo copione, che un giovane neppure ventenne, rubando il tempo al sonno, compose, attuando una particolare resistenza dell'intelletto in quella Crocavia del 1940, preda dei nazisti: senso del tragico inteso come rapporto e confronto tra l'uomo ed il mistero, sentimento del verso come passione ed ordine. Il testo si intitolava: Giobbe e l'autore era Karol Wojtyla.
Giobbe, non Antigone. Siamo già oltre la ribellione, siamo alla domanda di sempre e di fondo. La contesa di innalza e l'uomo inquisisce Dio. Due anni or sono, qui, in San Miniato, fu accolto dall'Istituto del Dramma Popolare il dramma di un ebreo polacco di alto nome: Elie Wiesel, che conduceva una inchiesta analoga. Nei momenti di maggior dolore, le vittime chiedono: « Perché? ». La « morte della tragedia » è una invenzione letteraria, quasi che il male e la sofferenza e le implicazioni metafisiche dell'esistenza si fossero eliminate da sole e tutto fosse ormai chiaro e spiegato. Come se anche l'Assurdo, almeno nei termini riflessivi di un Camus, non fosse un tentativo di risposta al problema centrale per chiunque prenda consapevolezza del vivere.
Nata dal contingente, questa rivisitazione della figura emblematica di Giobbe acquista immediatamente uno spessore metastorico. La meditazione dell'autore è essenzialmente di. tipo religioso.
L'oscillazione del tempo è tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, tra la Promessa e l'Avvento. Non si esce dal rapporto tra l'uomo e il Dio che comprende in sé tutte le cose e tutti i destini.
Certo, il testo è una metafora, ma non perciò smentisce la propria « favola ». Non circolano potenti, non infieriscono dittatori. C'è la sventura, e basta. I razziatori dei beni di Giobbe sono un accidente, e Giobbe stesso se ne rende conto così da non perdere tempo in maledizioni, per rivolgersi invece, senza indugi, a Chi ha permesso che egli venisse flagellato. Giobbe è il giusto, e l'errore senza colpa motiva l'angoscioso stupore. La pazienza di Giobbe, si suoi dire.
Non si tratta affatto di pazienza. Giobbe vuole sapere, il dolore egli lo muta in esperienza. Non chiede la restituzione di ciò che ha perduto (gli verrà gratuitamente, dopo la prova, restituito e raddoppiato), ma chiede di capire in quale disegno è stato coinvolto. Non incurva le spalle, non si rassegna; al contrario, coltiva una dignità nella fedeltà al Signore, che lo conduce a discutere, dalla solitudine in cui tutti lo hanno lasciato.
In questo suo agonismo, Giobbe rischia molto, rischia il peccato di superbia, e buon per lui che il giovane Eliu, di spirito profetico dotato, lo sorregga, lo ammonisca e infine lo illumini, annunciandogli il Messia e mostrandogli quella futura divina sofferenza Kberatrice. Il dolore impregna il mondo, ma il mondo, ora, conosce la speranza. E l'adesione alla volontà del Signore è la caparra per una benedizione che non mancherà di risarcire.
Il testo di Karol Wojtyla — così presente alla propria contemporaneità, ma non di essa prigioniero — si sviluppa tra un Prologo ed un Epilogo e da molto spazio al Coro, che costituisce un elemento dialettico e che felicemente serve sia ad individuare i tratti della prudenza comune, sia a sollecitare la definizione psicologica di un Giobbe né rassegnato, né convinto, anzi animoso e sfidante.
Il copione ha dunque una intensità precisa oltre che una struttura particolare e, di più, accerta una vocazione alla poesia, che ha guizzi, scontri continui nelle immagini di sapore biblico deposte su una pagina non ignara della retorica, cioè di quanto l'arte richiede di canoni ed euritmie.
Giobbe è teatro popolare, è oratorio di presa diretta, è parola elaborata e commossa, è accuratezza di svincoli tesi e di clausole, e scrittura e voce.
La tragedia ha un « luogo deputato »; il cuore dell'uomo; Giobbe si svolge interamente, e con la massima efficacia, nel cuore del protagonista, specchio e teatro della sofferenza che la Grazia finalmente placa, silenzioso balsamo intcriore. Il mistero rimane, ma l'uomo non vi soccombe più.
Mai sino ad oggi messa in scena — semmai recitata da filodrammatici in forma oratoriale — questa sacra rappresentazione acre di riferimenti attuali, risolti in un discorso filosofico — ha trovato, nella piazza del Seminario di San Miniato, un inedito spazio scenico, e si tratta di una edizione di eccellenza, di un allestimento suggestivo al massimo ed insieme provocante e discutibile. I dati di fatto sono l'abbondante falciatura del testo (tradotto da Aleksandra Kurczab e da Margherita Guidacci), e l'abolizione di Prologo ed Epilogo: interventi riduttivi sensibili soprattutto nella seconda parte, con qualche calo di intensità problematica e di conflittualità. Si vuoi dire poi che la parola è in qualche misura assorbita da una rappresentazione per altro sconvolgente e per superbo linguaggio e per agghiaccianti riferimenti alla ininterrotta realità di gesti crudeli.
Bisogna avvertire che la intelligentissima regia della stessa Kurczab, polacca residente da tempo in Italia, ha avuto la supervisione di Krzystof Zanussi. Da entrambi sono scaturiti alcuni aspetti dello spettacolo. Il primo è l'inserimento di taluni esempi — quali l'assassinio di Moro e quello di padre Popiblusko ¦— della presenza del male nel mondo — sotto, però, la sola specie della violenza quotidiana esercitata dagli uomini —; del mondo che è un Golgota continuo, come allude una quadro che rievoca la via della Croce, come penitenza e non come addio verso la Resurrezione. E altre scene ci riconducono in special modo alla Polonia, con una attualizzazione spinta.
Il secondo, è lo stile francamente cinematografico della rappresentazione, che si sviluppa per un centinaio di metri di lunghezza e per larghezza di una strada, con uso di negozi, scalinate e sottopassaggi adiacenti. Una metà abbondante dello spettacolo è affascinante per originalità e soluzioni, per prepotenza figurativa, per incisività pantomimica, per combinazioni di luci e di suono (come nella stupenda trasformazone di una scalinata in distruttivo torrente: altra citazione del reale prossimo).
Lo spettatore è condotto in un clima di eccezionale tensione spirituale e di stupito godimento delle invenzioni registiche di tanto pregnante allusività e di così linguisticamente inusitatezza. Il tragico è un brivido che percorre ogni rapido quadro e l'atmosfera è a tratti di smarrita allucinazione.
Il finale, si vorrebbe un poco più nutrito di quella parola che Zanussi sembra non credere sino in fondo. La spettacolarità non è difetto, se però è intreccio di tessuto verbale e di apporti visualizzanti; questo allestimento lo dimostra ampiamente, anche se non totalmente, e si pone, pertanto, come un evento su cui riflettere quando si voglia fare teatro all'aperto e per tutti, fuori dagli schermi entro i quali si riflette una ripetitività ormai consunta. Lascia, però, una certa nostalgia del testo originale, che non è affatto esangue o approssimativo, ma anzi ragionato e determinato.
Grande efficacia, dunque, dell'impostazione e della spregiudicatezza dei richiami alla cronaca: non citazioni di comodo, ma senso vissuto del nostro tragico quotidiano e passione civile di chi patisce per le condizioni della sua patria. Del resto, il testo è per un certo verso, aperto, come avverte la dedica quando dice che « queste cose accaddero nel Vecchio Testamento e queste cose stanno accadendo nei giorni nostri ».
I capitoli splendenti di questa rappresentazione, legittimamente indirizzata verso il « politico » più nobile — mentre il testo conserva il suo autonomo carattere di meditazione religiosa e dunque onnicomprensiva — hanno diversi autori, di là dal sapiente, accattivante lavoro registico: sono le coreografie di Francesca Romana Sestini, seguenze di folgorante narrativa; sono le musiche di Tony Cucchiara, che riportano ad una coralità e popolarità partecipi; sono gli interventi illuministici di Slawomir Idziak, creatore di atmosfere affascinanti; sono gli interventi scenografici di Sergio D'Osmo. Ma non sono in seconda fila gli attori: un Ugo Pagliai di raffinati mezzi coi quali esprime l'intera gamma di reattività del protagonista, prestandogli una forte commozione, e una Paola Gasmann squisita nel ruolo severo di Eliu. Ma Giorgio Biavati e Fiorella Buffa, Filippo Alessandro e Gianluca Farnese e Adriano Giraldi, con gli altri interpreti, sono puntualissimi, sicché il racconto scenico ha il merito di una comunicatività davvero straordinaria e di un livello artistico ben alto, nonché contrassegnato da scene nuove, da soluzioni pertinenti nella loro carica allusiva.
Odoardo Bertani Avvenire, Milano, 27 Luglio  1985




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