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La recensione di Silvio D'Amico
 

L'angoscia umana e il silenzio di Dio
«Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
È, riportato nei Vangeli, il grido più tragico che abbia mai risonato sulla terra: quando l'umanità del Cristo inchiodato sulla croce parve sopraffare la sua divinità. Ed è a un tal grido che esplicitamente si riporta Thierry Maulnier nel suo bel dramma Giovanna e i giudici: dove tornando a trattare per l'ennesima volta la vicenda della Pulzella d'Orléans, si pone l'accento su questo motivo, nuovo ed eterno di evangelica tragicità.
Due anni addietro, quando il dramma era applaudito al Vieux-Colombier di Parigi, si disse che la sua nota singolare, attuale, consisteva nella rappresentazione dell'estenuante interrogatorio dell'eroina a poco a poco ridotta, dalla tortura morale delle insidiose inquisizioni, alla frantumazione della sua volontà: spaventoso richiamo alla orrenda tragedia di certi processi politici d'oggidì. Il che è vero: ma non è tutto il vero. Una tale rappresentazione, e diciamo pure polemica, non è il fine ultimo del dramma: è il suo mezzo. Il dramma mira indicibilmente più alto: alla tragedia della solitudine in cui l'eroina, improvvisamente «abbandonata» da Dio, si dibatte con le sole forze umane.
Il dramma non svolge già, come di regola i suoi innumerevoli precedenti da quelli romanzeschi o romantici sino a Péguy, a Shaw, ad Anderson, le varie fasi della parabola di Giovanna, dalla sua ascensione alla sua catastrofe; non ce la mostra nel frastagliato periodo delle lotte vittoriose di lei che, assistita dalle «voci» arcane — quella dell'Arcangelo Michele, di Santa Caterina e di Santa Margherita — trionfa via via della incredulità dei politici, della diffidenza dei soldati, dell' indifferenza del popolo e, trascinandosi dietro il paese, sconfigge gl'invasori e incorona il Delfino: fino allo sciagurato scontro di Compiègne, alla sua caduta in mano al nemico, alla vendetta dell'infame tribunale che, per distruggerne l'incontrastato prestigio, la manda al rogo come strega. Il dramma di Maulnier presenta Giovanna già vinta: e cioè nel punto in cui, fatta prigioniera, la cessazione dei suoi materiali e morali successi coincide con quella degli aiuti soprannaturali. Improvvisamente le «voci» dell'Arcangelo e delle due Sante, che l'avevano assiduamente guidata facendo di lei povera pastora analfabeta la fulgida condottiera di un Paese risorto, si tacciono. Ad abbandonarla non sono soltanto gli sconoscenti Francesi, Pingratissimo re, gli ecclesiastici compiici del nemico: è, l'abbiam detto, Dio stesso. Nell'orrore della sua prigione, crocifissa tutta la notte dai ceppi e tutto il giorno martellata dalle subdole investigazioni degli inquisitori, Giovanna è sola, con le sue povere forze di giovinetta, di fronte alla prova suprema.
Sicché, della tragedia di lei, il Maulnier ci da la rappresentazione su due piani. Uno è il piano celeste: dove le due Sante, che sino a ieri confortarono e diressero l'azione della Pulzella e ancora oggi ardono di femminile sollecitudine per lei, sono tuttavia inesorabilmente trattenute dal comando dell'Arcangelo, il quale adesso ha la consegna di non più consentire gl'interventi soprannaturali nella sorte di Giovanna: essa deve ormai conquistarsi la sua corona da sé. E l'altro è il piano terrestre, dove la giovanetta è straziata dagli incessanti interrogatorii dei tre giudici: uno acre e duro, gli altri due di modi variamente umani e benevoli se non pietosi, ma tutti e tre mossi da un identico intento, quello di distruggere la sua personalità di eroina, strappandole la ritrattazione: s'intende senza torture fisiche che ne infirmerebbero la validità agli occhi del popolo, bensì con la scaltra persuasione, in maniera da dare all'abiura di lei le apparenze di una libera confessione. Ed è questo che, a un certo momento, pare che avvenga. Esteriormente indomita e intimamente sempre più smarrita, Giovanna ribadisce con disperata menzogna agli inquisitori che ogni giorno i suoi Santi continuano a visitarla nella sua cella: in realtà, non più sostenuta da loro, ella si sente ormai stritolata nell'anima. E quando la si conduce davanti al rogo, anche la sua carne trema. Ella ha paura, cede: e confessa il suo passato, riconoscendosi fattucchiera, eretica, scismatica, idolatra.
Ma quando poi, tornata nel carcere dove ha accettato di dimettere la sua veste militare per indossare quella femminile, si trova a fronte del soldataccio di guardia, son le parole di costui a darle la misura dell'abisso in cui è precipitata. Il soldataccio è dei tanti che avevano, più o meno, creduto in lei: ed ora in lei non vede se non un'impostora: peggio, una femmina come le altre, da poterne fare ciò che i soldatacci fanno con le femmine. Diciamo che sono queste parole, e il tentato oltraggio di costui al suo costume femminile, che risuscitano nella fanciulla la coscienza di sé, della sua personalità, della sua missione. Nel buio del carcere, in una improvvisa visione, ella contempla se stessa: le appare radiosa la immagine del suo vero io: la Pulzella, armata, guerriera, eroica. E il sangue le rifluisce nelle stanche vene; l'ardore dell'olocausto a cui è votata la riprende. Giovanna rinnega la sua temporanea debolezza; accetta la sua orribile e splendida sorte. Ai giudici venuti a liberarla dalla prigione si ripresenta in abito di soldato, sconfessando la sua confessione, riaffermando il suo messaggio divino, pronta al martirio. Scandalizzati ma impotenti, essi non hanno altre risorse che mandarla al rogo. Al quale per tanto Giovanna si avvia, vittoriosa; ha superato, da sola, la tremenda prova.
E l'Arcangelo cede ormai alle istanze delle due Sante pietose: «ora sì che possiamo andarle incontro».
Clima di tragedia; conflitto d'una creatura umana alle prese con se stessa, nella più crudele ed eroica delle situazioni. Ritroviamo qui le grandi parole che ridanno al teatro il suo più alto compito, riaffidandogli un messaggio di luce spirituale: dove la catastrofe è una vittoria, ed un pubblico ricontempla, commosso, il meglio delle sue aspirazioni. Ha fatto bene Guido Salvini a non tradire la essenzialità dell'opera e a serbarle la sua scheletricità, rinunciando a ogni suggestione spettacolare e mantenendone l'interpretazione in una linea di estrema semplicità.
Anche in quest'anno l'Istituto del Dramma Popolare, per la consueta festa di San Genesio, aveva offerto agli attori, come sede, la medioevale, irregolare, suggestiva piazza di San Miniato. Salvini ha preso per sfondo l'angolo formato dalla veneranda facciata della chiesa e dal rugoso e crivellato palazzo vescovile. Con pochi, discreti, sommari elementi scenici — alcuni gradini, una inferriata, un palo, la ruota della tortura, le cataste per il rogo — ha volta per volta suggerito gli istantanei mutamenti di quadri — tribunale, prigione, piazza del supplizio, eccetera —. E diremmo che il crescente interesse e le suggestioni più vive egli le ha conseguite in queste scene « terrestri », affidate a un minimo numero di interpreti
gradevolmente abbigliati da Gianni Vagnetti; mirabile Vivi Gioi, che di Giovanna ha dato un'interpretazione di femminea, toccante, patetica e tragica tenerezza; bravi il Sanipoli e lo Sbragia, eccellente di virile persuasione il D'Angelo, nelle figure dei tre inquisitori; pieno di agghiacciante verità Salvo Randone, nella rude sagoma del soldataccio.
Problema più arduo (e risolto assai meno felicemente, come spirito e come tecnica) quello di rappresentare i colloqui degli esseri celestiali: il regista non ha esitato a farli via via apparire nei luoghi più impensati, in cima al campanile della chiesa, o sopra una torre retrostante agli spettatori, o dai rosoni della chiesa stessa, e finalmente sulla sua soglia, a incontrare la Martire. Ma dal Ferzetti, che figurava l'Arcangelo, avremmo forse desiderato meno enfasi; meglio le due Sante, la cui soave sollecitudine fu candidamente espressa da Stella Aliquò e da Anna Miserocchi. Nella scena più difficile, in cui la disfatta Giovanna ha la visione della Giovanna eroica, questa fu impersonata da Edda Albertini, tutta argento nell'armatura e negli squilli dei suoi richiami.
Il pubblico che, secondo una consuetudine ormai quinquennale, era accorso in folla non solo dai dintorni ma anche da città lontane, ha fatto allo spettacolo le accoglienze più calorose, festeggiando col regista e cogli attori anche l'autore, venuto di Francia ad assistere al successo.
Silvio D'Amico, R.A.I., Mercoledì 27 Agosto 1951




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