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La recensione di Dino Carlesi
 

Una corale preghiera drammatica
Stanotte gli uomini hanno ingannato le stelle. Le ho viste tremolare più intensamente sull'alba, incerte se prendere la via del cielo o quella della terra: Orazio Costa le aveva confuse.
Lo spettacolo è terminato da poche ore. Lo scenario incomparabile di luce di silenzi di movimenti di canti, si è disciolto or ora nell'aria, come per un incantesimo, e il verbo dei personaggi non si è ancora adagiato sul velo della memoria: vive sognante sulla punta delle nostre dita, nell'orecchio incantato, nella rètina stupita. Il cielo e la terra erano così fusi, stanotte in un amplesso di divino candore, che a noi è sembrato confondere, ad un certo momento, proprio come le stelle, i due piani sovrapposti davanti a noi dal Regista e di partecipare volta volta alla recitazione degli uomini e a quella degli angeli.
Serio spettacolo teatrale è divenuta la «preghiera» drammatica di Copeau: perché nient'altro che una preghiera a più voci è questa calda testimonianza di fede lasciataci dal grande Maestro scomparso, anche se egli sembra volerci sintetizzare in sei episodi la vita del Santo, dalla sua drammatica spogliazione, attraverso la fondazione dell'ordine, le prime missioni, i primi miracoli, l'arrivo di Chiara, le tentazioni de La Verna, le prime defezioni dei compagni, le apparizioni delle stigmate, fino alla trionfale morte alla Porziuncola.
Preghiera di Jacques Copeau. La sua francescana esistenza di uomo d'arte avvilito e afflitto, sempre ad armi corte contro l'affarismo artistico e il manierismo dilagante, in uno slancio di suprema umiltà e intuizione del divino, ci ha donato questa preghiera corale, umile e dimessa, impregnata di amore e di fede. Ma questa estrema confessione doveva portare in sé una fatale reminiscenza letteraria, una tendenza alla fredda parola declamata: e le infinite libertà che egli concede al regista (precisa nella premessa di lasciare a lui la scelta della scena e degli allestimenti vari), unite ad un certo sussurrato simbolismo lirico e alla corrispondenza suggerita di continuo tra cielo e terra tramite i cori, sono appunto i tentativi di teatralizzare una « prece » che rischierebbe troppo spesso di perdersi nei lunghi monologhi e nelle fredde prediche.
Al di sopra del valore puramente estetico, a noi piace rintracciare nel copione di Copeau un estremo messaggio di umiltà umana ed un estremo incitamento ad aver fiducia nell'amore dell'uomo.
Il suo poverello è la povertà in persona, una povertà di carne che si fa ricca nel contatto con gli uomini. Il Poverello difende strenuamente la sua povertà, e la sua ira contro i frati che vogliono alleggerire la Regola ha il valore di una condanna storica e la potenza delle paurose maledizioni bibliche: il messaggio di Copeau ha qui un senso altamente ammonitore. Il Santo — già vecchio, stanco e cieco — ritorna dalle sue missioni, trova i suoi frati tentennanti tra la primitiva povertà e le riforme allettatrici, e grida lo sdegno doloroso del fondatore tradito: «Ma io mi domando quando porterete con voi armi per difendere i vostri beni terreni? E io vi dico che, dopo aver abitato nelle case, abiterete nei palazzi, avrete pietanze squisite sulla vostra tavola e cavalli nelle vostre scuderie. Ed io vi avverto ancora una volta che c'è un mezzo solo per restar libero e puro e forte davanti a Dìo — uno solo, capite? — abitare povere capanne fatte di rami e di fango, come io vi avevo ordinato... Escano, dunque dall'Ordine coloro che rifiutano la regola...».
Stanotte Pierfederici, con la sua dizione scavata e angosciata, sembrava gridare queste tremende parole al mondo, quasi un estremo consiglio agli uomini e alle cose, assorti tutti in una maliosa opera di distruzione reciproca.
I frati lo abbondonano ed il Poverello resta con pochi fedelissimi a combattere la finzione, la ricchezza, l'orgogliosa sete del sapere filosofale: resta solo a cantare l'inno a Madonna Povertà. Ed è giusto affermare che al di là della sua attualità lirica, esiste nella parola di Copeau una contingente attualità morale, un'esigenza di costume: la sua sete di povertà e di umiltà sembra trarre origine da una profonda intuizione globale della vita, e da una profondissima ansia di miglioramenti umani e totali, per cui noi siamo costretti a dare al suo messaggio di artista un valore che trascende — sul piano critico — qualunque obiettivo spettacolare.
Che ne ha fatto Orazio Costa di un testo così simbolicamente forte, ma così statico e pericoloso? Fedelissimo alle idee del Maestro, del quale fu a Parigi prediletto allievo, Costa ha voluto darci un esempio di regìa alla Copeau, tralasciando meravigliose risorse naturali per ricorrere alla suggestiva finzione scenica. Ha costruito in legno una nuda attrezzatura a due piani, con varie nicchie per i passaggi, dominata da una grande scala pardentesi in alto e, con elementi semplicissimi spostati dagli stessi coreuti, aiutato dal canto dalle luci dai colori dal movimento, vi ha creato sopra una quasi irreale fantasmagoria di uomini e di angeli, tutti interessati all'azione del Santo.
La sovrapposizione dei due piani con frequenti passaggi dall'uno all'altro, continui alternarsi dell'umano e del divino; le bianche apparizioni e le estasiate immobilità degli angeli, la nuova sistemazione dei cori, i canti luminosi, i cinguettii e mille altri espedienti, hanno contribuito a dare
un'ossatura spettacolare ad un testo pesantemente verbalizzato, creando sulla curva gradinata un insieme mirabilmente lirico, quando tendente all'alto cielo, quando alla bassa terra, sempre elegantemente sostenuto su una corda tesissima di elevato linguaggio teatrale.
Il Costa è stato un vero maestro nella distribuzione e nel dosaggio del movimento: abbiamo assistito ad una sagra del movimento, ad un caracollare continuo di figure, ad un incrociarsi ritmato di gesti e di passi. I personaggi si univano a grappoli in un punto di primo piano, per slanciarsi subito dopo, a sentimenti mutati, in un angolo morto della scena, per poi tornare a riunirsi immobili — un attimo — in un groviglio scultoreo di membra o a sciogliersi genuflessi a terra in un abbandono totale di umile annientamento. Una musica continua di volti e di mani, percuotenti ora la nuda terra, ora invocanti il cielo; e infine, in alto, la fresca presenza del coro degli angeli dalle lunghe trombe, dolcissimi nelle loro pose melodiose, leggerissimi nel passo, irreali fra fruscii d'ali e aerei gesti candidi e canti di allodole.
Tutto questo ci ha dato Orazio Costa; le piccole, inevitabili zone d'ombra non incrinano la limpidità di un così serio spettacolo. Egli ha potuto sfiorare il capriccio creativo (finale del primo atto), senza mai perdere il ritmo e l'armonia del classico.
Osiamo fare solo un appunto e riguarda l'impostazione data alla recitazione: a noi sembra che a tratti tutto il complesso degli attori abbia ecceduto per giovanile irruenza. È stato senz'altro Copeau a darci un Santo folle; sarà stato senz'altro Costa a suggerire a tutti, e per tutti i sei tempi, un piglio estremamente giovanile, ma è certo che la recitazione è apparsa a volte affannata, convulsa, irruente anche quando il testo non sembrava richiederlo. Per reagire alla staticità del testo, si è caduti a tratti nella dinamicità eccessiva della dizione, oltre che dello spettacolo, giustamente condotto, nel suo complesso, con vivacità e snellezza. Su un fondale di così riuscita sintesi tra realtà e sogno, non avrebbe nuociuto una più modesta dizione, una più sofferta pronuncia della battuta.
Tutti, del resto, dagli attori, ai cori, agli ideatori della scena, hanno egregiamente cooperato a questo dignitoso spettacolo di prosa; la figlia dell'autore scomparso, qui presente, madame Hélène Coupeau-Dasté, ci confessa, in questa incantevole notte sanminiatese, col ciglio umido di pianto, che il padre è stato degnamente commemorato in terra italiana e che ella lo ridirà domani agli amici francesi.
Dino Carlesi, Il Gallo, Genova, 25 Settembre 1950




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