Questo sito utilizza cookie tecnici, di profilazione propri e di terze parti. Se continui la navigazione, se accedi ad un qualunque elemento di questa pagina (tramite click o scroll), se chiudi questo banner acconsenti all'uso dei cookie.
Chiudi ed Accetta Voglio saperne di più
 

ARCHIVIO DI TUTTE LE EDIZIONI:

cerca all'interno del sito:

SEGUICI SU:


facebook youtube email



Ministero

Regione Toscana

ARCHIVIO
 
La recensione di Vladimiro Cajoli
 

La recensione

Uno spettacolo che ci ha incatenati e commossi

A distanza di pochi giorni, la memoria di questo Copeau rappresentato a San Miniato (Il Poverello trad. G. Manacorda, ed. Sansoni), è per noi come avvolta in cellophane: lucida e chiarissima, ma fredda e distante.
Qualcuno è stato tradito: noi o Francesco? Non ci arrogheremo la difesa del Santo; ma di noi possiamo ben dire, e aggiungere che forse è stata tradita anche una ragione d'arte. Noi (nel plurale vorremmo poter includere almeno i lettori di lingua italiana) riconosciamo e amiamo in Francesco l'azione, la semplicità e principalmente l'umiltà. Il fioretto della perfetta letizia, in tal senso, ci sembra preponderi, come testimonianza francescana, sullo stesso canto dantesco; perché, laddove Dante accentua la socialità del Santo nel concetto di povertà, il fioretto segue il rapinoso involo di Francesco alla conquista della letizia nell'umiltà. Tutt'e due le interpretazioni celebrano un Santo rivoluzionario, ma quella di Dante proietta la rivoluzione fuori dell'uomo, in tutta la società, mirando al francescanesimo polemicamente investito del duplice avvertimento: di non fuggire né coartare se medesimo, e di offrirsi come esempio agli uomini, poiché l'avidità è fondamento e origine di tutti i mali sociali; l'interpretazione dei Fioretti instaura la rivoluzione dentro l'uomo, e concentra la ragione esistenziale nell'umiltà, così che, dopo Giobbe e l'Apostolo (Mihi autem absit gloriari, nisi in cruce Domini...), la dignità terrena e la prerogativa inalienabile dei raziocinanti sono di nuovo cercate e attuate nella pazienza, che è un primo grado della Passione.
Rispetto a questa, la stessa interpretazione di Dante appare assorbita e secondaria: basta ricondurle entrambe al Sermone della Montagna, per intendere come il Poeta polarizzi il francescanesimo nell'aspetto che più s'addice alla ansia morale e politica contingente, mentre il fioretto prevede l'uomo cittadino della Città di Dio.
accade risalendo al reale, da testi di prima mano o di prima poesia. Così è di Cristo, che è già tutto nei Vangeli, ed è in te che leggi, ma non può trasferirsi in altra pagina, parafrasato. Tal Francesco, che nella tradizione non a caso scarna ha già detto tutto quanto poteva dire, non ha niente in comune con qualsiasi altro Francesco, antico o moderno si faccia necessariamente verboso per diventare personaggio: Dante non lo fa parlare, fa che si parli di Lui.
In Copeau, invece, Francesco parla sempre, parla troppo. Nei sei atti, la parola del Santo è spesso enunciato teorico di santità e di francescanesimo, è chiosa di azioni per lo più sottintese, è pompa antifrancescana di teologia romanzata, esortazione, moralità, perfino lezione politica. Ma dove dicevamo tradita anche una ragion d'arte, pensavamo che il Copeau, invece di risalire dalla cronaca e dalla leggenda francescane direttamente all'intuizione del Santo, ne discende pedissequamente rispettoso della tradizione, ripete e amplia di seconda mano interpretazioni artistiche altrui, così che tra il nostro Francesco (quello che l'innatismo del divino ha ben configurato in ognuno di noi) e il Francesco del Copeau, ci sono almeno tre gradi, risalendo i quali perdiamo ogni illusione di verità, il senso della freschezza e la commozione autentica dell'incontro. Riconosciamo che il razionalismo moderno avversa potentemente quest'indipendenza creativa, ma dobbiamo pur notare come sia condannato alla parafrasi, chi si obbliga a fonti troppo illustri.
Poiché l'Istituto del Dramma Popolare promuove un ritorno alla sacra rappresentazione, non sembra inutile dire che essa, per rinascere veramente popolare, vuole autori che affrontino la materia con la stupefacente e quasi stordita libertà delle origini; così che ogni azione drammatica abbia le proprie radici nel vero fantastico e non nel modello letterario o in una pretesa verità storica.
Conosciamo anche noi tutte le francescanerie promosse da confusioni che si fanno spesso tra il tenero e il santo: i panteismi, le laudazioni (che son cosa diversa dalle Laudi), gli estetismi in sandali e saio, D'Annunzio e Cécile Sorci; ma sappiamo che, chi riesce a spogliare Francesco di quel minimo di retorica che è anche nei Fioretti o nelle figurazioni giottesche, può ritrovarlo nitido e vivo, come sempre.
E tuttavia, raramente uno spettacolo ci ha incatenati e commossi come questo. Ha già detto la cronaca, che la notte fredda, ventosa, piovosa non è riuscita a cacciare un solo spettatore dall'immensa platea. Era certamente in tutti noi, fin dalle prime battute, una specie di risentita voluttà del commisurare il grandissimo Santo che portavamo nel petto, a quel piccolo uomo che lassù profondeva a gara con gli elementi e con il fruscio delle piante fiancheggianti il palcoscenico, suoni ricchi soltanto di nobiltà letteraria e di suasione musicale; ma presto anche il nostro ripicco, come preveduto, fu blandito e irretito da una regìa stupefacente.
I personaggi parlavano spesso senza vivere, ma le masse vivevano in un moto incessante ed essenziale, che pur traeva origine e ritmo dal suono di quelle voci. I silenzi incorniciavano i quadri a fermo con il medesimo stupore che promana dal capolavoro pittorico, mentre la significazione di esso pervade a poco a poco lo spirito e scioglie gioiosamente l'animo. La perfezione millimetrata del passo e del gesto, l'altezza misuratissima delle voci soliste o corali, l'incontro, lo scontro, l'intreccio del colore, appastellato ai centri della composizione e vivamente affrescante i contorni; il rifluire puntuale della persona umana nel pieno di un'idea che si manifestava progressivamente precisata e chiarita da particolari mimici, talché la parola finiva con lo scadere a ordito per trame visive di importanza preminente; e i pacati corali, i fulgori abbacinanti o i leni crepuscoli; la ieratica nobiltà della costruzione scenica: tutto contribuiva alla rivelazione della regìa. Anche coloro che non ne avessero mai capito il compito e la funzione, avrebbero avuto l'esempio chiarificatore.
Per farci intendere pienamente qual senso del teatro abbia il Costa (teatro senza aggettivi, né Piccolo né altro che non comprenda, con le prime, le ultimissime file e i loggioni), e in che misura egli sappia contribuire al conseguimento del livello più alto a cui di volta in volta si possa aspirare, era necessario proprio un testo che richiedesse un sovrappiù di regìa: rara esigenza nelle opere che abitualmente si affrontano in un Piccolo Teatro; si aggiungano l'amore per il Maestro, la gratitudine, il nobile sentimento dell'emulazione, e il fatto che nell'opera di un grandissimo regista, la regìa è naturalmente chiamata a sostenere la parte principale, e si capirà l'eccezionale risultato.
Altrettanto mirabili la fedeltà e la pieghevolezza degli interpreti (una legione) agli intedimenti del direttore: risultati di così assoluta perfezione possono essere conseguiti soltanto attraverso una disciplina durissima e una scuola in cui, singolarmente e collettivamente, si creda quasi con fanatismo. Congrua e veramente francescana la umiltà di molti attori, a cominciare dalla signora Maltagliati, che non hanno creduto la loro arte indegna di parti secondarie e tuttavia difficili.
Antonio Pierfederici, che si può dire abbia monologato per tre ore nella parte di Francesco, ha fatto dimenticare che certi personaggi superano la statura di qualsiasi attore. Egli, trepidando e consumandosi, ha sposato una grande fede artistica alla giovinezza disciplinata di tutto il suo essere, sì che la purità e la freschezza connesse con l'idea del Santo, risultavano vive e presenti nella misura necessaria all'illusione dello spettacolo. La scena del Santonocito, su bozzetti di V. Costa, e i costumi (specialmente i sai, tutti diversi in tonalità digradanti di tempera) hanno molto contribuito al senso finale dello spettacolo, che giudichiamo principalmente un trionfo della plastica animata, e una modernissima trasposizione teatrale della narrativa pittorica trecentesca.

VLADIMIRO CAJOLI, Idea, Roma, 17 Settembre 1950




© 2002-2021 fondazione istituto dramma popolare di san miniato

| home | FESTA DEL TEATRO 2023 | chi siamo | dove siamo | informazioni e biglietti | scrivici | partner | sala stampa | trasparenza | sostieni | informativa privacy | informativa cookie |

 

Fondazione Istituto Dramma Popolare San Miniato
Piazza della Repubblica, 13 - 56028 San Miniato PI
P.I 01610040501

Home