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La recensione di Giorgio Prosperi
 

« Fiorenza » di Thomas Mann e il populismo rampante di Savonarola
La spia stilistica, infallibile strumento di precisione, ci avverte che Fiorenza di Thomas Mann (prodotta da San Miniato nell'adattamento di Aldo Trionfo e Marco Bongioanni) è opera elegiaca, rappresenta il rimpianto per la decadenza di uno dei vertici della storia del mondo, la Firenze rinascimentale, su cui l'imminente morte di Lorenzo il Magnifico spande una funebre tristezza e lascia intravedere quanto nel culto della bellezza, professata senza risparmio nella Corte medicea, vi fosse di esteriore e di ornamentale. Morendo, Lorenzo non lasciava eredi degni di lui; era l'epoca che moriva. Per Thomas Mann, attentissimo alle realtà culturali, Lorenzo è il nietzschiano Dioniso, suscitatore di gioia e di ebbrezza creativa. La sua fine è la cessazione di un soffio vitale, che ha investito la Toscana e, indirettamente, l'Italia intera.
Nel suo elegiaco rimpianto, Mann si intona perfettamente alle molte voci del decadentismo, che, direttamente o indirettamente, lamentavano il tramonto dell'Occidente, la crisi dei valori, la crisi della civiltà, e presagivano diverse forme di Apocalisse, i cui primi sintomi, erano già in atto. Mann non è uomo da mancare a un appuntamento culturale. Dietro i valori di Firenze, che già scolarono con l'agonia di Lorenzo, c'è un ombra, un fantasma inquietante: il Priore di San Marco, il predicatore ferrarese, Girolamo Savonarola, che rappresenta, per il razionalismo rinascimentale e la democrazia periclea, l'irrazionalismo, il populismo rampante, l'integralismo moralistico, il ritorno alla teocrazia medioevale.
Questa ombra esiste sulla scena soltanto come presenza indiretta, nei racconti, fatalmente alterati, dei cortigiani. L'episodio saliente di questi resoconti è l'accusa lanciata dal pulpito da Savonarola alla bellissima Fiore, l'amante del Magnifico, trasparente allegoria di Firenze. Per quanto ridotto agli estremi, il Magnifico vorrebbe ancora una volta esercitare la sua virtù primaria, cioè capire e conseguentemente mediare. Fiore intuisce il desiderio di Lorenzo di incontrare il frate e lo convoca in villa, al capezzale del moribondo. Ecco il fantasma che si fa carne, tanto più inquietante, in quanto l'uomo vivo non incute meno timore del fantasma, non è meno astratto, meno provvisto di umanità. E si ingaggia un tragico duello tra l'incertezza, la curiosità di apprendere, la tolleranza di Lorenzo, e la durezza imperativa, le pesanti condizioni di resa che il frate pone al morente, incluso l'abbandono della città da parte di tutta la famiglia. Lorenzo muore. Il « terribile cristiano » col suo carismatico autoritarismo resta padrone del campo, metafora di una delle possibili alternative dell'Europa al tramonto.
Pubblicata la prima volta nel 1905, Fiorenza fu rappresentata a Monaco nel 1908, a Berlino nel 1913 (con regia di Reinhardt), a Vienna nel 1918. Date sintomatiche: presagi di catastrofe e sconfitta. Naturalmente il chiasso attorno all'opera, trattandosi di un autore già altrimenti affermato, fu grande, soprattutto perché toccava tasti delicati: la religione, la cultura, l'arte. Ed i punti di vista, favorevoli o contrari, dovettero essere esposti con schematismo manicheo, insopportabile per uno scrittore umbratile, eccelso nell'arte di cogliere le più sottili sfumature psicologiche, assai più che le decise polarità drammaturgiche. Infatti Fiorenza fu il primo ed unico lavoro teatrale di Thomas Mann. Ma intanto bisognava difendersi dagli zelatori troppo estroversi di una tesi o dell'altra, un po' per personale ripugnanza di sentirsi imprigionato in uno schema, un po' forse, per sollecitazione dei produttori a non inimicarsi in partenza un pubblico religioso; un po' tutto è possibile, per una più approfondita riflessione sul personaggio di Frate Girolamo. Perciò si diede a pubblicare precisazioni e rettifiche, quasi tentando una vertiginosa sintesi dialettica tra Lorenzo e Girolamo.
E' questo che ha indotto gli adattatori Bongioanni e Trionfo a intervenire sul testo, senza toccare il tessuto dialogico di Mann ma inserendo passi significativi dell'oratoria sacra di Savonarola, soprattutto di carattere sociale e morale; i passi che ancora tengono vivo il ricordo del predicatore e alimentano la sua candidatura alla santità. Alla fine, per esempio, è stato aggiunto il commento al salmo « Miserere », scritto dal Savonarola in carcere, tra una tortura e l'altra, come a bilanciare col martirio la durezza del suo comportamento con Lorenzo.
E' perciò che abbiamo visto Fiorenza nascere inaspettatamente, come opera di edificazione cristiana, in un luogo   deputato   dell'apologetica   cattolica,   San   Miniato:
adattato da un religioso, Bongioanni, e da un gran signore comunista, Trionfo, che ne ha curato la regia, in collaborazione con Salveti. « La pietà di Dio ha sì gran braccia », che accoglie i più improbabili accostamenti.
A questo punto è quasi inutile dire che da un punto di vista storico, anzi laicamente storicistico, Savonarola, con tutte le apparenze di un reazionario ritorno al medioevo, rappresenta l'avvenire; tanto la storia si diletta a capovolgere con l'azione gli schemi preordinati dai professori. Infatti stiamo ancora discutendo su Savonarola. Tanto che ci si domanda se, piegata Fiorenza a intenzioni apologetiche, non convenisse rimettere le mani su tutto. Ma si sarebbe perduto il nome di Thomas Mann, che « vai bene una Messa ».
Trionfo, con le scene di Giorgio Panni e i costumi di Aldo Buti (coi giovani artisti in divisa prearcadica), ha creato uno spettacolo accattivante, con lenti e suggestivi movimenti, immersi nel liquido amniotico delle musiche dell'infaticabile Terni. Qualche salto di stile, inevitabile per le interpolazieni, si riordina nella continuità della regia. Arnoldo Foà è un Lorenzo civile, ragionevole, tollerante, simpatico, specie nella scena coi figli e in quella con Savonarola. Virginio Gazzolo è un Savonarola febbricitante, nevrotico, divorato dalla fiamma rivoluzionaria della sua fede. Sabrina Capucci, il cui costume allude alla Primavera botticelliana, si muove sinuosamente tra i due contendenti. Marco Maltauro crea una credibile figurina di Giovanni de' Medici, futuro Leone X. Piero Caretto, Edoardo Siravo e Paolo Musio, danno vita scenica al Poliziano, Pico della Mirandola e Piero de' Medici.
C'era molto pubblico, attento ed interessato, come hanno mostrato gli spontanei, cordiali applausi.
Giorgio Prosperi Il Tempo, Roma, 8 Agosto 1986




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