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La Stampa - La recensione di Masolino D'Amico
 

Così Eros Pagni diventa Papa
Le spade e le ferite di Elena Bono, scelto per l'annuale Festa del Teatro di San Miniato, punta i fari su un momento cruciale del Medioevo facendo parlare nientemeno che Federico II di Svevia e il suo Gran Cancelliere e Logoteta Pier delle Vigne, immortalato da Dante tra i suicidi, più papa Innocenzo IV, che di Federico fu l'ultimo antagonista. Articolato in episodi speculari, il lavoro inizia con un lungo scambio tra il sovrano e il Logoteta; siamo in un castello ai piedi della Maiella e l'anno è il 1243. Federico è violento, prepotente, affascinante, sensuale, con una odalisca sempre a portata, pieno di progetti e disposto a vedere nemici dappertutto; Pier delle Vigne è teso nello sforzo di assecondarlo, senza riuscire a nascondere completamente la sua ambizione. Giunge la notizia della nomina del nuovo papa, un Fieschi: Federico esulta perché si considera suo amico, ma Pier delle Vigne rileva che costui ha scelto di chiamarsi Innocenzo come un altro grande avversario dell'Imperatore. Passiamo a Lavagna e al 1245. Innocenzo si aggira col nipote Ottobono e parla del temuto Federico; i due sono travestiti da fraticelli per andare a trovare la madre del Fieschi. Dopo l'incontro con costei il papa è riconosciuto e acclamato. C'è un passaggio sulle scorribande dei pirati saraceni mandati da Federico, e si salta al castello di Fiorentino in Puglia e all'anno 1250. Roso dalle febbri, Federico si spegne vegliato dalla fida Safira e da Percival Doria; nel delirio pensa a donne del suo passato e a Pier delle Vigne che anni prima ha fatto accecare per tradimento. Infine Napoli, 1254. Malato a sua volta, Innocenzo IV sta per morire proprio nel ricco palazzo che Pier delle Vigne si era fatto costruire. Lo assiste il nipote Ottobono, ora cardinale e avviato a diventare papa Adriano V.
Niente azione, dunque, solo dialoghi con caratterizzazione dei personaggi. E questi dialoghi sono in un impasto linguistico che si rifà alle parlate antiche, evocando un'Italia in cui oltre al livellante latino coesistevano cento parlate diverse; Federico in particolare, che dice «eo» invece di «io», infila frasi in tedesco e in francese nel suo siculo, Pier delle Vigne è antico-campano, Innocenzo, vetero-genovese. L'armata Brancaleone e Dario Fo hanno molto sbeffeggiato queste parlate, ma malgrado qualche anacronismo (la parola «suicidio», per esempio, non sembra sia attestata prima del 1734), il risultato non è malvagio, anche grazie alla regia semplice e intelligente di Ugo Gregoretti (casta scenografìa di Daniele Spina, costumi di Antonella Zeleni) e alla scioltezza degli attori, tra i quali Eros Pagni mantiene il suo standard di solido e articolato dicitore come papa Innocenzo, mentre come Federico Massimo Foschi compie il miracolo di trascendere tutti i cliché - barbaccia, sghignazzate, nomi storici a gogò - risultando convincente. Buon successo, dunque, e repliche fino al 26.
MASOLINO D'AMICO, La Stampa, 23 luglio 2000




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